lunedì 14 agosto 2023
Nel Ferragosto di due anni fa i taleban conquistavano di nuovo Kabul, mettendo in fuga precipitosa gli americani. Ora però hanno scoperto che controllano solo il territorio, mentre l'economia crolla
Militari britannici e americani sollevano un bimbo durante l’assedio all’aeroporto di Kabul da parte dei civili in fuga

Militari britannici e americani sollevano un bimbo durante l’assedio all’aeroporto di Kabul da parte dei civili in fuga - Ansa

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Fatima Gailani non può dimenticare quella sera dell’ottobre 2020 quando, per la prima volta, si è trovata allo stesso tavolo con i taleban. Sette mesi prima, questi ultimi avevano siglato a Doha l’accordo con l’Amministrazione Trump che prevedeva il ritiro delle forze Usa da Kabul. Restava da sciogliere, però, il nodo del futuro politico del Paese. L’intesa l’aveva colpevolmente rinviato a data da destinarsi. Nell’attesa, si era aperto a Doha un dialogo tra le varie componenti del “mosaico afghano”. Fatima Gailani, una delle madri della Costituzione repubblicana ed ex presidente della Croce Rossa, è stata una delle quattro donne – su ventuno rappresentanti – delegate al negoziato.

L'attivista

«Il ministro degli Esteri del Qatar aveva organizzato una cena per far incontrare le delegazioni. Ogni rappresentante della Repubblica era seduto a fianco a un esponente degli ex studenti coranici. All’inizio ero nervosa. Non sapevo che cosa aspettarmi. E, invece, è stato tutto naturale. Dopo mezz’ora, avevo dimenticato chi erano loro e chi eravamo noi. C’era solo un gruppo di afghani che parlava delle proprie vite, delle proprie famiglie. E il clima di rispetto si è mantenuto anche quando abbiamo cominciato la discussione vera e propria. Sono stati gentili ma, purtroppo, inflessibili perché erano militarmente in vantaggio», racconta la politica e attivista, raggiunta grazie a Women in international security (Wiis) Italy, presieduta da Loredana Teodorescu, che ha lanciato una task force di e per le donne afghane con il sostegno del ministero degli Esteri.

Dopo 45 anni di guerra

Da quella trattativa sarebbe potuto venire alla luce, dopo 45 anni di guerra ininterrotta, un Afghanistan rinnovato, retto da un governo pienamente inclusivo e rispettoso dei diritti delle persone. Invece, la scarsa lungimiranza occidentale, il ruolo ambiguo dell’allora presidente Ashraf Ghani, la brama di potere e la rigidità dei taleban hanno stroncato quel sogno sul nascere. E dalle sue ceneri è sorto, esattamente due anni fa, l’Emirato islamico dell’Afghanistan: un regime di soli uomini, taleban e pashtun in cui la libertà individuale è tabù. Specie – ma non solo – quella delle donne, cancellate progressivamente dalla scena pubblica con una serie di editti voluti dalla fazione più radicale, il cosiddetto gruppo di Kandahar, di cui fa parte l’emiro, Hibatullah Akhundzada. «Abbiamo perso tutti, inclusi i taleban – sottolinea Fatima Gailani –. Anzi, specialmente i taleban. Hanno vinto sul campo e hanno conquistato il palazzo presidenziale. Ma si sono trovati fra le mani una scatola vuota». Interrotto il flusso di aiuti internazionali e congelati da Washington i fondi della Banca centrale repubblicana depositati negli Usa – circa 3,5 miliardi di dollari –, la popolazione è allo stremo.

La situazione

La fotografia scattata dall’Ufficio Onu per gli affari umanitari è allarmante: 29 milioni di persone, su un totale di 42 milioni, quasi i due terzi degli abitanti, ha necessità di aiuto per sopravvivere. Il 77 per cento di loro sono donne e bimbi. I poveri sono 35 milioni, la metà sono gravemente malnutriti. La retorica taleban ha voluto celebrare la data odierna con enfasi, decretando la festa nazionale. Lo è pure il 31 agosto, giorno della partenza dell’ultimo militare Usa, il tenente generale Christopher Donahue. I vertici dell’Emirato, tuttavia, sono consapevoli della gravità della situazione. Eppure, secondo Fatima Gailani, c’è ancora un barlume di speranza. I taleban hanno il controllo del territorio. Un controllo asfissiante, si intende. Ma che ha messo fine a quasi 5 decenni di guerra, come dimostra la drastica diminuzione degli attentati. «Quale scusa hanno ora per non aprire un dialogo con tutti gli afghani? A Doha definivano i rappresentanti della società civile come un prodotto artificiale dell’Occidente. Ora gli stranieri non ci sono più, possono sceglierne altri. Ma devono farlo o non sopravviveranno». Tra il regime del mullah Omar e l’attuale Emirato è trascorso un tempo non misurabile in anni bensì in trasformazioni. Mai c’erano stati tanti giovani – femmine e maschi – istruiti, Internet consente infiniti modi per aggirare la censura, pezzi di modernità si sono insinuati anche nelle remote campagne. Lo conferma la resistenza nonviolenta di fronte al bando all’istruzione dopo le elementari per le donne: The armed conflict data project ha registrato da gennaio 60 proteste, già il doppio rispetto al 2022. «Per questo non possiamo arrenderci. Lo scontro frontale non è utile perché otteniamo solo l’irrigidimento ulteriore dei taleban – conclude Fatima Gailani che a Doha fa parte di un gruppo della società civile che prosegue il lavoro di mediazione –. Le parole chiave sono insistere, provare, impegnarsi».

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