«Noi, popoli indigeni, alla Cop30: ecco cos'è la resistenza»
di Lucia Capuzzi, inviata a Belém
Txai Suruí è uno dei simboli dell'Amazzonia e a Belém ha spiegato gli effetti del cambiamento climatico sulla sua comunità: «Nonostante l'indifferenza dei Grandi, questa conferenza è stata un bagno di realtà. E noi abbiamo idee per posticipare la fine del mondo»

«Mentre voi chiudete gli occhi davanti alla realtà, il guardiano della foresta Ari Uru-Eu-Wau-Wau, amico d’infanzia, è stato assassinato per avere protetto la natura. I popoli indigeni sono in prima linea nell’emergenza climatica, dunque dobbiamo essere al centro delle decisioni che vengono prese qui. Abbiamo idee per posticipare la fine del mondo». Le sue parole, pronunciate dalla tribuna di Glasgow, riuscirono a commuovere i 197 leader internazionali presenti all’apertura della 26esima Conferenza Onu sul clima del 2021. Quattro anni dopo, Walelasoetxeige Suruí, meglio nota come Txai, non ha perso la grinta né la determinazione a lottare. Ed è ancora convinta che la prospettiva dei nativi possa allontanare l’estinzione dell’umanità.
Per questo, nonostante batoste e delusioni, continua ad alzare la voce per condividerle. «Sì, ho speranza. Nonostante l’indifferenza dei Grandi ce l’ho. Al di là di tutto, questa Cop abbia costretto i negoziatori a un “bagno di realtà”. Ha provocato uno choc generale. Nel Nord del mondo, spesso, le persone immaginano l’Amazzonia come un paesaggio da fiaba: verde, incantata, incontaminata. E, invece, arrivando qui, si sono trovati di fronte trivelle di petrolio, fiumi privatizzati, piogge anomale. Ma hanno toccato con mano anche la capacità dei popoli indigeni di mobilitarsi. La loro resistenza», afferma Txai Suruí prima di entrare nella sala principale del Palacete Faciola dove viene trasmesso il film sulla storia sua e della comunità Paiter Suruí della Rondônia brasiliana.
Uno degli eventi principali della decima Mostra del cinema amazzonico, organizzata a Belém, in occasione del summit, grazie alla creatività di Eduardo Souza.
Il tono serio contrasta con l’aria da ragazzina dell’indigena 28enne. La stessa che aveva a Glasgow. Eppure la sua vita è cambiata da allora: si è laureata in diritto, impiega le sue conoscenze giuridiche per difendere i nativi con l’associazione Kanindé ed è consulente delle Nazioni Unite sull’emergenza climatica. Alla Cop30 è stata all’interno del Consiglio indigeno, formato da un migliaio di rappresentanti e, insieme ad altri giovani nativi, ha avuto un lungo colloquio con Guterres per denunciare gli abusi che feriscono la foresta e i suoi abitanti. «Purtroppo, rispetto a quattro anni fa, non è mutata la violenza in Amazzonia. Le miniere illegali si moltiplicano. L’agricoltura intensiva avanza. La soia, per la prima volta, sta iniziando a divorare anche l’area dei Paiter Suruí nonostante ci sia stata restituita legalmente molto prima che nascessi. Mio padre, Almir, è minacciato di morte. Certo, io ho molta più visibilità. Faccio ancora fatica a rendermene conto. Lo vivo come una responsabilità. Da portare avanti. Per questo sono venuta a questa Cop e spero di essere alla prossima. Molti Paesi hanno capito che è necessario realizzare una transizione energetica giusta. Il numero deve crescere. Solo insieme abbiamo qualche possibilità di riuscire. La disillusione è un lusso che non possiamo concederci». Prima di alzarsi, Txai si poggia sui lunghi capelli neri, il “kokama”: un copricapo tradizionale di foglie e piume intrecciate. «Queste sono di falco – spiega –. Portiamo il “kocama” nelle occasioni importanti per avere con noi l’ispirazione degli alberi e degli animali della foresta. Abbiamo necessità della loro forza per andare avanti».
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