«Noi, madri del Kosovo, aspettiamo verità su chi non è tornato»

di Riccardo Michelucci, Gjakova
Ferdonije Qerkezi vive da 26 anni nella casa dove le sono stati portati via figli e marito, dopo un rastrellamento da parte dei serbi. Oggi tra quelle pareti tutto è rimasto come allora: qui arrivano in tanti, in un pellegrinaggio civile che non è finito
November 8, 2025
«Noi, madri del Kosovo, aspettiamo verità su chi non è tornato»
Ferdonije Qerkezi nella sua casa di Gjacova/ R.Michelucci
A Gjakova, città-martire del Kosovo che fu completamente distrutta durante la guerra degli anni ‘90, dentro una casa con le persiane azzurre e le pareti ingiallite dal tempo, una donna vive da ventisei anni accanto ai fantasmi della propria famiglia. Si chiama Ferdonije Qerkezi, e dal 1999 la sua esistenza è rimasta sospesa in un tempo che non passa. Era il 27 marzo.
Le bombe della Nato ancora non avevano iniziato a cadere su Belgrado, ma la tensione nel Kosovo era già esplosa in persecuzioni e rastrellamenti. Quel giorno, poco dopo le undici, un gruppo di poliziotti serbi fece irruzione nella casa e portò via undici uomini: suo marito, Halim, e i loro quattro figli – Artan, Armend, Ardian ed Edmond – insieme a ospiti e vicini. Senza un motivo, senza un processo, senza ritorno. «Io e le altre donne fummo rinchiuse in cantina. Sentivo le loro voci che si allontanavano, poi solo motori e silenzio. Da quel momento non ho più avuto loro notizie», racconta Ferdonije che da allora è rimasta a custodire ciò che resta. E a trasformare quel dolore in un museo della memoria, aperto a chi voglia capire cosa significa sopravvivere all’assenza.
Abiti, oggetti di famiglia, scarpe di bambino, attrezzi della bottega che aveva il marito nel negozio-mensa degli anni ’90: ogni cosa è rimasta com’era il giorno in cui tutto fu strappato. Nelle stanze della casa-museo si ha l’impressione che il tempo si sia fermato. I letti, i mobili, le fotografie dei giovani sorridenti: ovunque si sente un’assenza cupa e quasi fisica, che toglie il fiato. Ferdonije vive ancora al piano superiore, da sola: «Non posso abbandonare questa casa – spiega –. È tutto ciò che ho, ed è anche la loro tomba». Ogni mattina, apre le finestre e spazza il cortile. Il suo gesto è sempre lo stesso, come un rito. Poi si siede nella stanza più luminosa, accanto alle fotografie dei suoi cari, e aspetta. Non un ritorno – quello sa che non arriverà – ma una verità che dia pace. Nel 2005, due dei suoi figli, Artan ed Edmond, sono stati ritrovati e riconosciuti attraverso i resti rinvenuti in una fossa comune. Degli altri tre non c’è traccia.
Secondo l’International Commission on Missing Persons (Icmp) sono ancora oltre 1.600 le persone disperse del conflitto del Kosovo. Per loro la verità è rimasta sepolta insieme ai corpi. La casa di Ferdonije Qerkezi è diventata un luogo di pellegrinaggio civile, un altare laico dove la memoria personale si fa collettiva. «Non volevo che questa casa si trasformasse in un mausoleo del dolore – ripete seduta al tavolo dove un tempo faceva i compiti con i ragazzi – ma che fosse un luogo di incontro, di racconto, di condivisione. Se dimentichiamo, la guerra vince due volte». «Qui non si parla solo della mia famiglia – prosegue – ma di tutte le madri del Kosovo che aspettano ancora un corpo, una risposta». La sua voce è diventata quella di un intero popolo che continua a cercare verità e giustizia. Una delle poche testimonianze ancora vive delle atrocità del 1999 è anche un luogo che parla al presente: di giustizia negata, di responsabilità taciute, di una riconciliazione che non può esistere senza verità. 

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