La società del malessere: in Corea del Sud è boom di problemi legati alla salute mentale
di Luca Miele
il numero di sudcoreani a cui è stata diagnosticata la depressione e il disturbo bipolare è aumentato di quasi 1,5 volte negli ultimi sei anni

È l’altro “volto” della Corea del Sud, quello nascosto dallo scintillio del K-pop e dei drama televisivi, dall’effervescenza tecnologica, dall’ininterrotto boom economico. Il disagio mentale nel Paese asiatico cresce, e cresce vertiginosamente. I dati sono allarmanti. Come riportato dal Korea Herald, il numero di sudcoreani a cui è stata diagnosticata la depressione e il disturbo bipolare “è aumentato di quasi 1,5 volte negli ultimi sei anni”. I pazienti affetti da depressione sono cresciuti del 47%, passando da 752.976 nel 2018 a 1,1 milioni nel 2024. Il numero di chi soffre di disturbo bipolare è transitato da 95.911 a 139.731 nello stesso periodo. La ricaduta, anche economica, di questa “epidemia” di problemi di salute mentale è pesante. In totale, riporta ancora il quotidiano sudcoreano, le spese mediche combinate per le due malattie mentali sono ammontate a 943,9 miliardi di won lo scorso anno, avvicinandosi alla soglia dei mille miliardi. Ancora più fosco il quadro che emerge se si analizza il “segmento” degli under 40 anni: l’incidenza della depressione è quasi raddoppiata rispetto al 2018. Anche i bambini sotto i 10 anni sono “toccati”: è stato registrato un forte aumento dei casi, passati da 37.250 a 73.075.
Insomma siamo davanti a una tendenza in crescita che investe la società sudcoreana interamente. In un sondaggio nazionale del 2024, il 73,6% dei coreani ha dichiarato di aver sofferto di almeno un problema di salute mentale nell'ultimo anno, come stress cronico, ansia o sintomi depressivi.
Come leggere questo fenomeno? Per lo psichiatra Daehyun Rho, la crisi della salute mentale in Corea del Sud “non è semplicemente una questione di sintomi individuali. È il riflesso di profondi problemi sistemici – pressione sociale, gerarchia medica, mancanza di educazione sulla salute mentale – che collettivamente spingono le persone verso una sofferenza silenziosa e una dipendenza dai farmaci”. Siamo davanti a un (doloroso) cortocircuito. L’epidemia di disturbi è direttamente “imputabile” o comunque legata a “storture” strutturali e sociali ma anziché provare a intaccarne e rimuoverne il nucleo disfunzionale, si preferisce coprirlo – e coprire la sofferenza -, annegandolo con la farmacologizzazione del disturbo mentale. “Questa crescente medicalizzazione del disagio emotivo ordinario trascura il ruolo del contesto di vita, della pressione sociale o delle ferite psicologiche irrisolte. Invece di aiutare gli individui a esplorare il significato della loro sofferenza, il sistema incoraggia la soppressione chimica dei sintomi”. Non solo è sottostimato il fenomeno, ma risulta del tutto inadeguata la risposta al suo dilagare. “Il sistema rimane dominato da un modello biomedico, in cui i pazienti ricevono rapidamente una diagnosi e vengono prescritti farmaci. La maggior parte delle visite psichiatriche ambulatoriali dura meno di 10 minuti”.
Un dato cattura la gravità della situazione. I decessi per suicidio hanno raggiunto il numero più alto degli ultimi 13 anni. Secondo i dati preliminari della Korea Foundation for Suicide Prevention (KFSP), nel 2024 sono stati segnalati 14.439 casi di suicidio, con una media giornaliera di 39,5. Si tratta del numero più alto dal 2011, quando si arrivò a 15.906. Dal 2003, ininterrottamente, la Corea ha registrato il tasso di suicidi più alto tra i 34 Paesi membri dell’Ocse. Ogni 100mila persone di età compresa tra i nove e i 24 anni, il tasso di suicidio è pari a 10,8: è dunque la principale causa di morte tra i giovani.
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