«Io, sopravvissuto a Srebrenica dico a chi nega: ho visto tutto»
di Redazione
A trent’anni dal genocidio di 8mila uomini e ragazzi musulmani, in Bosnia un migliaio di vittime non ha sepoltura. Nedzad Avdic ha testimoniato al Tribunale dell’Aja, vivendo a lungo sotto copertura

Trent’anni dopo, il silenzio delle colline di Potocari continua a pesare come una colpa collettiva. L’anniversario del genocidio di Srebrenica – in cui oltre ottomila uomini e ragazzi musulmani furono massacrati dalle milizie serbo-bosniache sotto gli occhi inerti dei caschi blu dell’Onu – si avvicina in un clima carico di dolore e di inquietudine. Alla commemorazione di domani saranno sepolti i resti delle vittime identificate dagli antropologi forensi nell’ultimo anno. Col passare del tempo il numero dei ritrovamenti è sempre più esiguo: quest’anno saranno soltanto cinque. Individuare i resti è diventato quasi impossibile, perché le prove sono state nascoste dalla vegetazione e dagli agenti atmosferici ma all’appello mancano ancora circa un migliaio di persone.
Oggi Srebrenica è una città grigia, triste, priva di vita, dove si cammina tra i fantasmi del passato e la popolazione è ridotta a meno di un decimo rispetto a prima della guerra. Il centro è un misto di condomini fatiscenti, di edifici abbandonati e di case ricostruite di recente. È quasi la metafora delle ombre che sembrano riaffacciarsi sull’Europa dei Balcani inquinando la vita quotidiana di un Paese tuttora in preda ai nazionalismi che soffiano sul fuoco dell’intolleranza. In questi giorni a Srebrenica si piangeranno i morti ma si temerà anche per i vivi, perché in anni recenti l’offensiva revisionista serba si è intensificata alimentando una guerra per la verità sui mezzi d’informazione, nelle scuole, nelle chiese e nelle strade.
Ben due tribunali delle Nazioni Unite – la Corte Internazionale di Giustizia e il Tribunale Internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia – hanno stabilito che il massacro di uomini e ragazzi perpetrato dall’esercito serbo-bosniaco è stato un genocidio ma molti, sia in Bosnia che in Serbia, continuano ad affermare che quel genocidio non c’è mai stato.
Sostengono che il numero dei morti è esagerato, che le vittime erano combattenti o che Srebrenica fu soltanto una delle tante atrocità commesse da tutti gli schieramenti coinvolti nel conflitto. È anche per contrastare questa narrazione tossica che Nedzad Avdic, uno dei pochissimi - non sono più di una dozzina - sopravvissuti alle esecuzioni di massa delle milizie serbe di trent’anni fa, è tornato a vivere in città dopo un lungo periodo trascorso all’estero.

All’inizio è rimasto sotto copertura per motivi di sicurezza e anche perché non si sentiva ancora pronto a raccontare in pubblico ciò che gli era successo. Ma poi ha deciso di uscire allo scoperto condividendo la sua storia con il mondo intero, per far sì che la sua testimonianza possa diventare un antidoto al negazionismo. Nel 1995, nei giorni della fuga disperata da Srebrenica, Avdic, all’epoca diciassettenne, fu catturato dai serbi e si ritrovò disteso di notte nel terrapieno di una diga con le braccia legate dietro la schiena e ferite al petto, al braccio destro e al piede sinistro.
«Intorno a me c’erano centinaia di cadaveri di uomini e ragazzi prevalentemente musulmani appena assassinati dalle milizie serbe», ci spiega. Dopo essere scampato all’esecuzione quasi per miracolo riuscì a mettersi in salvo vagando nei boschi per quattro giorni e quattro notti. Di lì a poco sarebbe diventato uno dei testimoni-chiave al Tribunale dell’Aja. Le sue deposizioni si sono rivelate cruciali per far condannare alcuni dei principali architetti del genocidio come Radislav Krstic, Ljubisa Beara e Zdravko Tolimir, all’epoca il vice del generale Ratko Mladic. «Le condanne sono state importanti ma non riporteranno in vita nessuna delle vittime».
«Quello che conta davvero è che la nostra storia venga conosciuta e il mondo intero venga a sapere cos’è successo qua». Proprio per questo, alcuni anni fa Nedzad Avdic ha deciso di tornare a Srebrenica, aspettando il momento giusto per raccontare la sua terribile storia di sopravvissuto. Nonostante il profondo dolore per la perdita del padre, dello zio e di altri parenti, ha sentito il bisogno di affrontare di persona chi ancora oggi continua a negare o a minimizzare quanto è accaduto in quei giorni. Per guardarli negli occhi e testimoniare tutto l’orrore di cui fu vittima. «Sarebbe falso dire che non odio. Ma odiare non mi fa stare meglio e cerco con tutte le mie forze di respingere quel sentimento. A volte sono frustrato, perché mi rendo conto che non posso fare molto per contrastare il revisionismo».
Oggi Avdic ha poco meno di cinquant’anni e vive con la moglie e le tre figlie adolescenti a pochi passi dal cimitero memoriale di Potocari, dove sono sepolte gran parte delle ottomila vittime del genocidio, tra cui suo padre. «Quando arrivò la sentenza contro Mladic mi chiesero cosa provavo. Indicai la mia famiglia, le mie figlie. Sono loro la mia risposta all’orrore e alla morte».
Quanto ai negazionisti di oggi, Avdic punta il dito contro l’attuale presidente della Serbia, Aleksandar Vucic: «In gran parte è colpa sua, perché li sostiene apertamente. Quelli come lui vogliono ottenere in modo pacifico ciò che durante la guerra non sono riusciti ad avere con le armi».
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