«In Siria troppi focolai di guerra. Ma il nuovo governo cerca l’unità»

Hanna Jallouf, vescovo di Aleppo: coinvolgere i drusi nel comitato che amministra Sweida esperimento utile per tutto il Paese. Però sciiti e i nostalgici di Assad non vogliono la stabili
July 31, 2025
«In Siria troppi focolai di guerra. Ma il nuovo governo cerca l’unità»
Reuters | La carcassa di un carro armato pre le strade di Sweida
Gli scontri nella provincia meridionale di Sweida tra i drusi e le tribù beduine, un paio di settimane fa, con l’intervento delle milizie governative hanno provocato 1.265 vittime. A marzo gli scontri a Latakia tra i governativi e la comunità alauita, culla un tempo del potere degli Assad. Il 22 giugno l’attacco alla chiesa greco-ortodossa di Mar Elias a Damasco, con 25 vittime mentre recentemente l’Onu ha denunciato 140mila nuovi sfollati al Sud. I primi otto mesi di “nuova Siria” assomigliano al bollettino di una possibile nuova guerra civile, mentre la crisi economica si è di fatto aggravata.
Monsignor Hanna Jallouf, vicario apostolico di Aleppo dei latini, il suo Paese a otto mesi dalla caduta di Bashar al-Assad rischia davvero di cadere in un conflitto etnico-confessionale?
La Siria è caduta in mano dei rivoluzionari in 10 giorni: due giorni per liberare Aleppo, altri otto per tutto il resto del Paese. Le milizie che hanno portato a termine questa rivolta non sono tutte allo stesso livello di maturità politica: una buona parte ha la tentazione di creare uno Stato fondamentalista islamico nonostante tutte le promesse fatta da Ahmad al-Sharaa. Il presidente ha la buona intenzione si creare uno Stato civile, capace di portare prosperità al polo siriano conservando l’unità nazionale. Lo ha ribadito più volte, ma non tutti quelli che lo sostengono sono d’accordo: avversano questo progetto i sostenitori del vecchio governo come anche gli sciiti, sia quelli legati a Hezbollah, sia quelli legati all’Iran. Questi elementi non vogliono la stabilità del Paese e per questo, di tanto in tanto si accendono dei focolai di guerra iniziati con la rivolta sulla costa a Latakia a marzo. A Sweida, poi, ci sono stati degli scontri fomentati da false notizie sui social che hanno fatto da richiamo alle tribù beduine. Forse siamo alle porte di una guerra civile, mentre ci sono anche pressioni internazionali. Di recente sono intervenuti pure gli Stati Uniti per tentare di mettere pace nel Sud della Siria.
A Sweida, dopo aver insediato un comitato misto tra governo e drusi, la tregua sembrerebbe tenere a parte alcuni episodi circoscritti. Potrebbe essere quello un modello per il governo locale delle minoranze, alauiti e cristiani compresi?
Potrebbe essere un esempio per tutte le parti della Siria: un governo non deve centralizzare tutto a Damasco. Si potrebbe, ad esempio, seguire un modello amministrativo simile ai cantoni della Svizzera: ogni regione si organizza in modo autonomo, con una sua amministrazione, ma in mano al governo centrale rimangono saldamente in mano l’esercito e la politica estera.
L’ingerenza di Israele è un altro fattore, questo esterno, che può mettere a rischio la transizione siriana e su cui si sta negoziando. La Turchia la scorsa settimana ha lanciato un severo monito a Tel Aviv, ma nella rivoluzione diplomatica del dopo Assad, i siriani non temono di venire stritolati?
Al-Sharaa è arrivato a Damasco grazie all’alleanza con la Turchia e con altri. È impossibile che un regime cada in 10 giorni da solo, senza nessuna implicazione internazionale. E adesso ognuno vuole la sua porzione: Turchia, Israele, Stati Uniti e anche Iran e Russia perché molto viene deciso non dal presidente siriano ma da queste potenze alleate.
Prosegue intanto la “guerra economica”. Dal primo luglio gli Stati Uniti hanno tolto le sanzioni alla Siria. Ma come si vive in un Paese in cui 16 milioni di persone sono in stato di bisogno? C’è qualche segnale di ripresa?
Purtroppo ancora no perché gran parte della gente vive sotto la soglia della povertà. È la prima volta che vedo gente affamata per strada, bambini che dormono nei giardini pubblici: una povertà assoluta causata da questo cambiamento. La vita è molto cara e tanta gente è stata cacciata dal lavoro: più di un milione e mezzo di dipendenti pubblici sono stati licenziati. Questo è un fatto molto negativo: l’unico ministero che ha mantenuto i suoi dipendenti è il ministero del lavoro, ma molti altri, compresi giudici e amministratori, sono disoccupati. Specialmente i dipendenti del vecchio esercito licenziati vivono nella miseria.
Quale segnale, in questo momento difficile, può essere un segno concreto di speranza per voi siriani?
La pace, prima di tutto, che si deve rafforzare. E poi aiuti concreti alla popolazione che per ora non possono che venire da fuori mentre si spera di riavviare dei commerci e delle attività per dimostrare che il Paese si sta riprendendo. Ci sono imprenditori stranieri, a cominciare dai sauditi, che hanno promesso di investire in Siria. Speriamo che qualcosa si muova davvero.

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