Il cardinale che porta la voce dell'Asia: «Giustizia climatica»
di Lucia Capuzzi, inviata a Belém
Il cardinale Pablo Virgilio David: a chi non crede nel riscaldamento globale consiglierei di trascorrere sei mesi nelle Filippine. Il primo passo per un cambiamento potrebbe essere una tassa sullo sfruttamento delle materie prime

«Mio cugino aggrappato con la famiglia sul tetto, due settimane fa, mentre l’acqua ingoiava il resto della casa. E le spiagge candide delle Filippine che agli europei piacciono tanto. Quella distesa bianca e luccicante non è sabbia ma gli scheletri dei coralli uccisi dall’aumento delle temperature dell’Oceano». Le due immagini, di segno opposto, sono le prime che vengono in mente al cardinale Pablo Virgilio David quando sente l’espressione «riscaldamento globale».
L’arcivescovo di Coloocan, metropoli dell’affollata quanto inquinata nella cintura urbana di Manila, e presidente della Conferenza episcopale del Paese asiatico, è preoccupato: in poco più di una settimana due tifoni si sono abbattuti sull’arcipelago. Prima, Kalmaegi ha fatto oltre duecento vittime nell’isola meridionale di Cebu. Poi, cinque giorni fa, il potentissimo Fung-Wo ha sfiorato le Filippine nella corsa verso il Vietnam, costringendo oltre un milione di abitanti a sfollare. Entrambi, come spiega uno studio dell’Imperial College, resi, più intensi e più distruttivi dall’emergenza climatica. «Appena poco fa è stata diramata una nuova allerta-tifone: sarebbe il 23esimo dell’anno. Non abbiamo ancora fatto in tempo a riprenderci dai precedenti…», dice il cardinale “Ambo”, come i fedeli lo chiamano, mentre affretta il passo nel corridoio principale della “Blue zone”, il cuore dei negoziati. Là il vescovo è presente in numerosi incontri per portare il grido dei più vulnerabili d’Asia.
Che cosa chiedono le donne e gli uomini maggiormente colpiti dal surriscaldamento ai leader internazionali?
Giustizia climatica. Ovvero azioni concrete. E rapide. La mia diocesi si trova sulla baia di Manila: un’area che, fra vent’anni, sarà inabitabile in base alle previsioni degli studiosi. L’unica possibilità per continuare ad esistere sarebbe quella di realizzare sofisticati e dispendiosi sistemi di canalizzazione sul modello di Amsterdam. Le Filippine, però, non sono l’Olanda. Siamo un Paese povero. Già ora destiniamo il 20% del Pil al pagamento degli interessi per i debiti contratti: denaro sottratto all’educazione, alla salute.
Il Nord del mondo fa fatica, al di là della retorica, a mettere in pratica impegni seri. Perché?
Le grandi industrie legate all’estrazione di risorse naturali vengono da là. Gli stessi Paesi con cui siamo indebitati. Allora perché non fare una scelta di giustizia climatica? Negoziamo i rispettivi passivi.
Che cosa intende?
Si potrebbe imporre una tassa sullo sfruttamento delle materie prime. Non per l’inquinamento causato nel processo, come spesso si dice, bensì un’imposta per il solo fatto di estrarle. Forse, così, potremmo compensare a vicenda i nostri debiti. È una proposta semplice: potrebbe essere un inizio.
Pensa che i leader internazionali potrebbero accettare?
Credo nella possibilità della conversione. Incluso quella ecologica a cui ci ha invitato papa Francesco. Questa è la nostra casa comune. Se non troviamo un modo per trovare soluzioni condivise per proteggerla, soffriremo tutti. Certo, i poveri di più, ma la sfida riguarda tutti. Sono convinto che possiamo camminare e vivere insieme: una sinodalità umana. Per questo, dobbiamo parlare con chiunque: imprese, governi, società civile. Tutti. Anche con chi non è d’accordo.
E che cosa direbbe ai negazionisti?
Non sono uno scienziato ma ne ho ascoltati tanti in questi giorni. Le loro argomentazioni appaiono inequivocabili. Talvolta, però, occorre l’esperienza. A chi, dunque, non crede nel riscaldamento globale suggerirei di trascorrere un anno nelle Filippine. Anche sei mesi…
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