«I villaggi cristiani siano protetti dalle intimidazioni dei coloni»
di Redazione
L'appello dei patriarchi e dei capi delle Chiese di Gerusalemme in visita a Taybeh, in Palestina. Nei giorni scorsi incendi ai campi del borgo. Il cardinale Pizzaballa: la legge non esiste

«Denunciamo l’occupazione illegittima delle terra, l’intimidazione criminale che i coloni infliggono alla nostra comunità. Chiediamo l’aiuto della comunità internazionale perché Taybeh e i villaggi circostanti siano protetti. Non siamo stranieri, non siamo un’ombra che passa e scompare». Il parroco, Bashar Fawadleh, ha aperto con drammatica solennità la visita portata dai patriarchi e dai capi delle Chiese di Gerusalemme a Taybeh, ultimo villaggio interamente cristiano di Palestina.
Martedì 8 luglio i coloni israeliani hanno incendiato la vegetazione che arrampicandosi su una massicciata porta al cimitero e alle rovine dell’antica chiesa di al-Khader, uno dei luoghi religiosi più importanti di tutta la Terra Santa. Qui, nell’Antica Efraim, Gesù e i suoi discepoli trovarono protezione dai sommi sacerdoti, intenzionati a ucciderlo dopo la resurrezione di Lazzaro. Nella sala conferenze del municipio siedono i rappresentanti di tutte le comunità cristiane, una nutrita, ma non piena, rappresentanza diplomatica, la selva dei giornalisti, i paesani. Sullo schermo un breve video dà corpo allo stato di aggressione: le vacche dei coloni masticano serafiche le foglie degli ulivi, giovani ragazzi tormentano i contadini, incappucciati creano posti di blocco notturni con il fucile a tracolla.
«Ogni giorno che passa appare sempre più chiaro che non esiste legge, la legge è il potere», dichiara all’assemblea il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, chiamato insieme all’ortodosso Teophilus III a riassumere il sentimento delle Chiese. Sono necessarie «unità, solidarietà, l’interesse attivo della diplomazia, della comunicazione, della comunità internazionale». Un appello ecumenico alla forza della parola, della presenza, contro l’oblio dove ogni cosa può accadere, anche un’accelerazione del lento, progressivo dissolvimento della comunità cristiana in Terra Santa.
Nel 1967, prima che con la Guerra dei Sei Giorni Israele si appropriasse della Cisgiordania, i cristiani a Taybeh erano 8.000. Oggi sono 1.300. Il Ministero della Difesa israeliano, responsabile per i territori occupati, non ha offerto risposta alle missive che chiedevano ragione del totale disimpegno delle forze di polizia. Silenti, di conseguenza, gli Stati Uniti. Arriveranno anche loro a Taybe, si afferma con speranza.
L’oltraggio del borgo, sul quale ieri si è accesa con forza la luce, è anche un invito ad allargare lo sguardo ai fatti di Cisgiordania, dove non trascorre giorno in cui, ovunque e ripetutamente, i palestinesi non vengano umiliati, derubati, feriti. Sabato, non lontano da qui, a Sinjial, due giovani palestinesi sono stati uccisi dai coloni. Uno dei due, Saif Musalat, è stato picchiato a morte. Aveva il passaporto americano.
L’assemblea si è poi spostata fra le rovine di al-Khader per un momento di preghiera comune. Circondati dalle antichissime mura, a pochi passi dalla terra incendiata, le preghiere cantate e il Padre nostro, recitato nell’unisono in più lingue, si sono diffusi fra le brune colline punteggiate di olivi.
«È la guerra a Gaza, non c’è dubbio. Ciò che è successo è una cosa rara. Fino a qualche tempo fa i coloni talvolta venivano a Taybeh a fare la spesa, esisteva un minimo di relazione», racconta padre Jacques, melchita francese, in Palestina da 48 anni e a Taybeh da 38. Ci accompagna nel cuore della città vecchia, splendido dedalo arroccato sulla montagna. Da una terrazza indica il Monte degli ulivi, il luogo dove la notte appaiono le luci di Amman, la colonia di Rimonim, da dove vengono gli attacchi. «Tutti i governi israeliani hanno favorito la colonizzazione, ma solo adesso la comunità internazionale si sta svegliando. Alla minaccia oggi i cristiani hanno replicato dicendo che non permetteranno ciò che sta accadendo altrove».
Martedì 8 luglio i coloni israeliani hanno incendiato la vegetazione che arrampicandosi su una massicciata porta al cimitero e alle rovine dell’antica chiesa di al-Khader, uno dei luoghi religiosi più importanti di tutta la Terra Santa. Qui, nell’Antica Efraim, Gesù e i suoi discepoli trovarono protezione dai sommi sacerdoti, intenzionati a ucciderlo dopo la resurrezione di Lazzaro. Nella sala conferenze del municipio siedono i rappresentanti di tutte le comunità cristiane, una nutrita, ma non piena, rappresentanza diplomatica, la selva dei giornalisti, i paesani. Sullo schermo un breve video dà corpo allo stato di aggressione: le vacche dei coloni masticano serafiche le foglie degli ulivi, giovani ragazzi tormentano i contadini, incappucciati creano posti di blocco notturni con il fucile a tracolla.
«Ogni giorno che passa appare sempre più chiaro che non esiste legge, la legge è il potere», dichiara all’assemblea il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, chiamato insieme all’ortodosso Teophilus III a riassumere il sentimento delle Chiese. Sono necessarie «unità, solidarietà, l’interesse attivo della diplomazia, della comunicazione, della comunità internazionale». Un appello ecumenico alla forza della parola, della presenza, contro l’oblio dove ogni cosa può accadere, anche un’accelerazione del lento, progressivo dissolvimento della comunità cristiana in Terra Santa.
Nel 1967, prima che con la Guerra dei Sei Giorni Israele si appropriasse della Cisgiordania, i cristiani a Taybeh erano 8.000. Oggi sono 1.300. Il Ministero della Difesa israeliano, responsabile per i territori occupati, non ha offerto risposta alle missive che chiedevano ragione del totale disimpegno delle forze di polizia. Silenti, di conseguenza, gli Stati Uniti. Arriveranno anche loro a Taybe, si afferma con speranza.
L’oltraggio del borgo, sul quale ieri si è accesa con forza la luce, è anche un invito ad allargare lo sguardo ai fatti di Cisgiordania, dove non trascorre giorno in cui, ovunque e ripetutamente, i palestinesi non vengano umiliati, derubati, feriti. Sabato, non lontano da qui, a Sinjial, due giovani palestinesi sono stati uccisi dai coloni. Uno dei due, Saif Musalat, è stato picchiato a morte. Aveva il passaporto americano.
L’assemblea si è poi spostata fra le rovine di al-Khader per un momento di preghiera comune. Circondati dalle antichissime mura, a pochi passi dalla terra incendiata, le preghiere cantate e il Padre nostro, recitato nell’unisono in più lingue, si sono diffusi fra le brune colline punteggiate di olivi.
«È la guerra a Gaza, non c’è dubbio. Ciò che è successo è una cosa rara. Fino a qualche tempo fa i coloni talvolta venivano a Taybeh a fare la spesa, esisteva un minimo di relazione», racconta padre Jacques, melchita francese, in Palestina da 48 anni e a Taybeh da 38. Ci accompagna nel cuore della città vecchia, splendido dedalo arroccato sulla montagna. Da una terrazza indica il Monte degli ulivi, il luogo dove la notte appaiono le luci di Amman, la colonia di Rimonim, da dove vengono gli attacchi. «Tutti i governi israeliani hanno favorito la colonizzazione, ma solo adesso la comunità internazionale si sta svegliando. Alla minaccia oggi i cristiani hanno replicato dicendo che non permetteranno ciò che sta accadendo altrove».
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