I social vietati in Australia, Noah e Macy sono i volti della protesta
Il 75% dei ragazzi dichiara che continuerà a usarli. I due 15enni porteranno la nuova legge all'Alta Corte

«Non dovrebbero vietarci. Dovrebbero insegnarci». E poi: «I soldi delle piattaforme dovrebbero servire alle aziende per eliminare i predatori, non per evitare le multe». «Sì, i social hanno problemi. Ma ci danno comunità, informazione, un senso di appartenenza». Ancora: «La democrazia non comincia a 16 anni». Sono solo alcune delle vibranti proteste che in queste ore i ragazzi australiani stanno affidando attraverso interviste, videomessaggi e lettere a politici e giornalisti. Sui social la loro “rivolta”, di qualunque entità essa sia, da ieri mattina non ha più palcoscenico. Eppure di cose da dire i protagonisti del ban australiano ne avrebbero tante. Il governo rivendica la legge come una risposta alla domanda crescente dei genitori di “riappropriarsi” del tempo dei figli, una dimensione interpretata come emergenza e un po’ anche come utile bacino di consenso. Le famiglie d’altronde – i media locali lo hanno raccontato bene negli ultimi mesi – vivono divise tra paura e gratitudine: la paura dei suicidi legati al cyberbullismo, della pornografia accessibile in pochi secondi, dell’autolesionismo normalizzato dagli algoritmi; e la gratitudine per uno Stato che sembra, per una volta, voler alleggerire il loro complicato compito educativo. Ma loro, i ragazzi, non li ha ascoltati nessuno.
Da qualche settimana a esporsi pubblicamente sono due 15enni, Noah Jones e Macy Newland, che hanno deciso di portare la legge davanti all’Alta Corte australiana sostenuti dal gruppo non meglio specificato di militanti antigovernativi Digital Freedom Project. I più maligni sostengono che dietro ci siano gli interessi (e il supporto economico) delle Big Tech, da Meta e TikTok. Tant’è: nel merito, i due ragazzi rivendicano il «diritto alla libera comunicazione», accusano il governo di non averli coinvolti nella definizione delle regole e insistono su un punto che sta facendo breccia in una parte dell’opinione pubblica, «non potete proteggere i ragazzi escludendoli dal mondo in cui vivono. Dovete educarli a starci». Non sono soli: secondo i dati raccolti da un sondaggio della tv nazionale australiana su oltre 17mila adolescenti tra i 9 e i 15 anni, una maggioranza schiacciante – il 70% – ritiene che il divieto sia «una cattiva idea». E il 75% dichiara che continuerà comunque a usare i social. Più che obbedienza, insomma, si profila una fuga laterale: quasi tutti gli esperti prevedono che i giovani aggireranno il divieto con Vpn, account fittizi, piattaforme alternative, col rischio che entrino in zone più opache del web, meno regolamentate, dove nessuno monitori i pericoli a cui sono esposti. Ciò che in effetti è uno dei punti davvero deboli della strategia governativa australiana.
L’altro punto dolente resta chi debba educare all’uso dei social: lo Stato? Le famiglie? Le scuole? I ragazzi australiani lo dicono apertamente: «Non proibiteci, accompagnateci». E forse non hanno tutti i torti quando sostengono che la responsabilità genitoriale, o se volete l’istanza educativa, non dovrebbe essere delegata per decreto. Tornando alle testimonianze di quelli intervistati nel sondaggio della tv australiana Abc (che le pubblica integralmente), c’è chi vive i social come una protesi identitaria indispensabile, soprattutto se isolato, introverso, affetto da una forma di disabilità o vittima di bullismo; c’è chi teme semplicemente la frustrazione, la disconnessione dalle amicizie, la perdita di uno spazio di auto-espressione; c’è anche chi riconosce la protezione come necessaria, ma chiede che non si trasformi in un recinto. È come se la discussione non riguardasse più solo TikTok o Instagram, ma il rapporto fra generazioni in un’epoca in cui la tecnologia ha separato gli adulti dalla comprensione del mondo in cui vivono i figli, e viceversa. Nessuna legge al mondo servirà a riavvicinarli.
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