Hiroshima e Nagasaki, il senso di colpa dei sopravvissuti
Solo adesso si sta cercando di disinnescare un'altra bomba in Giappone, devastante quasi quanto l'atomica: quella dell'emarginazione sociale per chi venne colpito. Il ruolo chiave della Chiesa

Il 6 e il 9 agosto 1945, le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki non devastarono solo due città giapponesi, ma crearono una nuova categoria di cittadini: gli hibakusha, letteralmente “persone colpite dalla bomba”. Tuttavia, la tragedia di questi sopravvissuti non si esaurì con le radiazioni e le ferite fisiche. Una seconda bomba, altrettanto devastante, li colpì negli anni successivi: l’emarginazione sociale da parte della stessa società giapponese che, invece, avrebbe dovuto accoglierli e sostenerli.
La discriminazione degli hibakusha affondava le sue radici in profonde credenze culturali giapponesi, particolarmente nel concetto buddista di karma secondo cui la sofferenza non è mai casuale, ma conseguenza di azioni compiute in vite precedenti. Gli hibakusha, quindi, venivano percepiti non come vittime innocenti di una tragedia bellica, ma come individui che stavano “pagando” per colpe passate.
Questa interpretazione religiosa si intrecciava con la tradizionale concezione giapponese di purezza (kegare) e contaminazione. Le radiazioni atomiche, invisibili e misteriose, venivano associate a una forma di impurità spirituale che poteva trasmettersi ad altri. La paura dell’invisibile creava un circolo vizioso: più gli effetti delle radiazioni rimanevano incompresi, più cresceva il timore verso chi li aveva subiti.
L’ignoranza scientifica amplificava questi pregiudizi. Negli anni immediatamente successivi al bombardamento, le conoscenze mediche sugli effetti delle radiazioni erano limitate anche tra gli specialisti. La popolazione generale, quindi, sviluppò credenze superstiziose: si temeva che la “malattia atomica” fosse contagiosa, che i figli degli hibakusha nascessero deformi, che il semplice contatto fisico potesse trasmettere la contaminazione.
Gli hibakusha faticavano a trovare lavoro, venivano esclusi dai matrimoni combinati tradizionali, i loro figli subivano bullismo a scuola. Molti furono costretti a nascondere la propria identità di sopravvissuti, rinunciando persino alle cure mediche specialistiche per evitare di essere “marcati” come hibakusha.
Le donne subirono una discriminazione particolare: considerate “impure” e potenzialmente portatrici di malformazioni genetiche, molte rimasero nubili o videro i loro matrimoni annullati quando la verità emergeva. Intere famiglie venivano ostracizzate, creando comunità parallele di emarginati nella società giapponese del dopoguerra.
In questo panorama di esclusione, la Chiesa cattolica di Nagasaki assunse un ruolo cruciale nel combattere la discriminazione. La comunità cristiana di Nagasaki, minoritaria ma storicamente radicata, aveva subito direttamente l’impatto della bomba atomica.
L’arcivescovo emerito Joseph Mitsuaki Takami, lui stesso sopravvissuto al bombardamento, divenne una figura centrale in questa battaglia contro i pregiudizi, sottolineando come la Chiesa abbia interpretato la sofferenza degli hibakusha non attraverso la lente del karma punitivo, ma come parte del mistero della sofferenza umana che il cristianesimo affronta con compassione e solidarietà.
«La nostra fede ci insegna che la sofferenza non è mai una punizione divina per peccati precedenti», dice Takami durante il nostro incontro a Nagasaki, «ma un’opportunità per manifestare l'amore di Dio attraverso la cura reciproca». La Chiesa di Nagasaki organizzò programmi di assistenza, centri di cura specializzati e, soprattutto, creò spazi di accoglienza dove gli hibakusha potevano sentirsi accettati senza pregiudizio.
Tuttavia, Takami ha sempre mantenuto un approccio onesto riguardo ai limiti della sua stessa comunità. «Sarebbe disonesto affermare che anche tra i cattolici di Nagasaki non ci siano stati episodi di rifiuto e discriminazione», ammette. «La cultura della paura e del pregiudizio era così pervasiva che nemmeno la nostra comunità rimase immune».
Takami ci racconta di come, negli anni Cinquanta e Sessanta, anche alcuni fedeli cattolici mostrassero riluttanza ad accettare matrimoni con hibakusha o evitassero il contatto fisico durante le celebrazioni eucaristiche. «È stato un processo lungo e doloroso», riflette l'arcivescovo, «convincere i nostri fedeli che l’amore cristiano non conosce barriere, nemmeno quelle create dalla paura delle radiazioni». La svolta arrivò gradualmente attraverso l’educazione e la testimonianza diretta. La Chiesa promosse incontri dove gli hibakusha cattolici potevano raccontare le loro storie, normalizzando la loro presenza nella comunità. Sacerdoti e catechisti vennero formati per contrastare le superstizioni con informazioni scientifiche accurate, dimostrando che la solidarietà cristiana richiedeva anche conoscenza e razionalità.
«La nostra missione – conclude Takami – non era solo spirituale ma anche culturale: dovevamo aiutare la società giapponese a superare secoli di credenze che associavano la sofferenza alla colpa personale, sostituendole con una visione di compassione universale». Oggi, a quasi ottant’anni dai bombardamenti, la battaglia contro la discriminazione degli hibakusha continua, anche se in forme diverse. La loro storia ci insegna che l’emarginazione sociale può essere tanto devastante quanto le ferite fisiche, ma ci dimostra anche che la compassione e l’accettazione possono trionfare sui pregiudizi più radicati. È una lezione che risuona ben oltre i confini del Giappone, un monito universale contro ogni forma di discriminazione e un invito a scegliere sempre l’umanità rispetto alla paura.
La discriminazione degli hibakusha affondava le sue radici in profonde credenze culturali giapponesi, particolarmente nel concetto buddista di karma secondo cui la sofferenza non è mai casuale, ma conseguenza di azioni compiute in vite precedenti. Gli hibakusha, quindi, venivano percepiti non come vittime innocenti di una tragedia bellica, ma come individui che stavano “pagando” per colpe passate.
Questa interpretazione religiosa si intrecciava con la tradizionale concezione giapponese di purezza (kegare) e contaminazione. Le radiazioni atomiche, invisibili e misteriose, venivano associate a una forma di impurità spirituale che poteva trasmettersi ad altri. La paura dell’invisibile creava un circolo vizioso: più gli effetti delle radiazioni rimanevano incompresi, più cresceva il timore verso chi li aveva subiti.
L’ignoranza scientifica amplificava questi pregiudizi. Negli anni immediatamente successivi al bombardamento, le conoscenze mediche sugli effetti delle radiazioni erano limitate anche tra gli specialisti. La popolazione generale, quindi, sviluppò credenze superstiziose: si temeva che la “malattia atomica” fosse contagiosa, che i figli degli hibakusha nascessero deformi, che il semplice contatto fisico potesse trasmettere la contaminazione.
Gli hibakusha faticavano a trovare lavoro, venivano esclusi dai matrimoni combinati tradizionali, i loro figli subivano bullismo a scuola. Molti furono costretti a nascondere la propria identità di sopravvissuti, rinunciando persino alle cure mediche specialistiche per evitare di essere “marcati” come hibakusha.
Le donne subirono una discriminazione particolare: considerate “impure” e potenzialmente portatrici di malformazioni genetiche, molte rimasero nubili o videro i loro matrimoni annullati quando la verità emergeva. Intere famiglie venivano ostracizzate, creando comunità parallele di emarginati nella società giapponese del dopoguerra.
In questo panorama di esclusione, la Chiesa cattolica di Nagasaki assunse un ruolo cruciale nel combattere la discriminazione. La comunità cristiana di Nagasaki, minoritaria ma storicamente radicata, aveva subito direttamente l’impatto della bomba atomica.
L’arcivescovo emerito Joseph Mitsuaki Takami, lui stesso sopravvissuto al bombardamento, divenne una figura centrale in questa battaglia contro i pregiudizi, sottolineando come la Chiesa abbia interpretato la sofferenza degli hibakusha non attraverso la lente del karma punitivo, ma come parte del mistero della sofferenza umana che il cristianesimo affronta con compassione e solidarietà.
«La nostra fede ci insegna che la sofferenza non è mai una punizione divina per peccati precedenti», dice Takami durante il nostro incontro a Nagasaki, «ma un’opportunità per manifestare l'amore di Dio attraverso la cura reciproca». La Chiesa di Nagasaki organizzò programmi di assistenza, centri di cura specializzati e, soprattutto, creò spazi di accoglienza dove gli hibakusha potevano sentirsi accettati senza pregiudizio.
Tuttavia, Takami ha sempre mantenuto un approccio onesto riguardo ai limiti della sua stessa comunità. «Sarebbe disonesto affermare che anche tra i cattolici di Nagasaki non ci siano stati episodi di rifiuto e discriminazione», ammette. «La cultura della paura e del pregiudizio era così pervasiva che nemmeno la nostra comunità rimase immune».
Takami ci racconta di come, negli anni Cinquanta e Sessanta, anche alcuni fedeli cattolici mostrassero riluttanza ad accettare matrimoni con hibakusha o evitassero il contatto fisico durante le celebrazioni eucaristiche. «È stato un processo lungo e doloroso», riflette l'arcivescovo, «convincere i nostri fedeli che l’amore cristiano non conosce barriere, nemmeno quelle create dalla paura delle radiazioni». La svolta arrivò gradualmente attraverso l’educazione e la testimonianza diretta. La Chiesa promosse incontri dove gli hibakusha cattolici potevano raccontare le loro storie, normalizzando la loro presenza nella comunità. Sacerdoti e catechisti vennero formati per contrastare le superstizioni con informazioni scientifiche accurate, dimostrando che la solidarietà cristiana richiedeva anche conoscenza e razionalità.
«La nostra missione – conclude Takami – non era solo spirituale ma anche culturale: dovevamo aiutare la società giapponese a superare secoli di credenze che associavano la sofferenza alla colpa personale, sostituendole con una visione di compassione universale». Oggi, a quasi ottant’anni dai bombardamenti, la battaglia contro la discriminazione degli hibakusha continua, anche se in forme diverse. La loro storia ci insegna che l’emarginazione sociale può essere tanto devastante quanto le ferite fisiche, ma ci dimostra anche che la compassione e l’accettazione possono trionfare sui pregiudizi più radicati. È una lezione che risuona ben oltre i confini del Giappone, un monito universale contro ogni forma di discriminazione e un invito a scegliere sempre l’umanità rispetto alla paura.
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