«Haiti, usurata ma mai sconfitta»
di Redazione
Il fotografo Roberto Stephenson ha raccolto per un decennio immagini di oggetti riciclati, emblema dell'economia di resilienza chela gente crea per sopravvivere. E' nato il libro "Made in Ayiti&

L’occhio cade su una fotografia: una carriola azzurra, un po’ malconcia. «I colpi di martello ben visibili, i chiodi piegati e arrugginiti: ogni segno racconta una storia. Ogni imperfezione dà un’anima all’oggetto», racconta Roberto Stephenson, artista fotografo italo-haitiano, che ad Haiti ha vissuto vent’anni. Quella carriola appartiene a Charite Senlwi, nato nel 1954 a Pilat, nell’entroterra del Nord. È l’unico sopravvissuto di otto figli. L’ha acquistata nel 1986, per 50 dollari. «È stata investita quattro volte da automobili, e lui l’ha sempre riparata. Se ne prende cura con amore, e ogni volta la rende più bella». Stephenson ha raccolto questo tipo di immagini per quasi un decennio, camminando tra mercati e strade del Paese.

Il risultato è il libro fotografico "Made in Ayiti", dal nome originario dell'isola: non solo un atlante di oggetti riciclati, ma uno spaccato profondo di società. Ogni manufatto è una scheggia di biografia, sufficiente a far riaffiorare intere stagioni del Paese. Come un carretto a forma di barca, oggi usato per vendere bevande simili a granite, di fronte ad una scuola nella periferia nord della capitale. Quando Stephenson l'ha vista gli è tornato subito in mente la sagoma di un altro carretto, a forma di veliero. Lo aveva incrociato spesso nei primi anni Duemila, in una zona vicino all'aeroporto della capitale. Si avvicina al venditore, vestito in modo eccentrico, e gli racconta che si ricordava di lui e dell’altra barca di dieci anni prima. «Ho visto la gioia accendersi nei suoi occhi dietro la grata del casco da football americano che indossava». L’uomo gli racconta, allora, che quella barca era bruciata nel 2004, nei giorni in cui le chimè – bande armate fedeli al governo del presidente Jean-Bertrand Aristide, seminavano violenza nelle strade. Ovunque, Haiti racconta sé stessa così: con oggetti usurati, ma mai sconfitti. Alcuni fanno da sportello scrivania per “scribi” di strada, che aiutano i cittadini a compilare moduli per mandare i figli a scuola.

Altri sono farmacie ambulanti. Come quella di Liksòn, venditore di medicinali sulla Panamericana. Compra le scatole intere per rivendere le pillole all'unità con un margine di guadagno tra il 15 e il 20 per cento.

Ma non è solo una questione economica: «Molti non si sentono a loro agio a entrare in una farmacia vera. Preferiscono comprare da venditori ambulanti che sentono più simili a loro». Ogni dettaglio, celebrato in queste fotografie, racconta di vite anteriori che hanno la forza di rinascere. Stephenson la chiama “poetica dell’imperfezione”. Una risposta alla miseria, ma anche una dichiarazione d’identità. Perché dietro ogni oggetto si intravede un’economia sommersa fatta di dignità, relazioni, memorie.

Un’economia di resilienza. «Ogni oggetto è un po’ il riflesso di chi l’ha fatto e di chi lo usa, con tutte le sue sofferenze. Restituisce un po' l'essenza di un popolo abituato alla catastrofe ma che lotta per sopravvivere fino alla fine».
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