Fame in Sudan, la scelta impossibile di Touma: quale gemella salvare?
Nell'orrore della guerra che devasta il Paese africano, una madre è stata costretta a decidere per quale delle due figlie acquistare i farmaci salvavita

Chiamiamole per nome. Masajed e Manahil. Non sono nomi di fantasia. Sono due gemelle, hanno tre anni. La loro madre, Touma, di anni ne ha venticinque. Ma ne dimostra parecchi di più. Il volto scarno, tirato. Le mani grandi, quasi scheletriche. In braccio, addormentata, tiene Manahil, che ha un sondino nel naso. A differenza della madre, dimostra molto meno della sua età. Due anni, forse. Di fronte a loro, nell’ospedale Basher della capitale sudanese Khartum, distesa su un lettino c’è Masajed. Nutrita anche lei con il sondino, la piccola bocca semiaperta, sembra invocare un soffio di vita. Che sfugge. Da giorni «non piange neanche più», dice la madre. Il timbro della voce è inespressivo, le parole escono come accelerate. «Vivevamo bene, avevamo una casa e il bestiame. Mangiavamo due volte al giorno. Zuppa, latte, datteri». Poi il 15 aprile 2023 è scoppiata la guerra civile e sono dilagati anche nel suo villaggio gli scontri fra i paramilitari delle Forze di supporto rapido – capeggiati dal generale Mohammed Dagalo ed evoluzione di quei Janjawid di etnia araba che sotto l’ex presidente al-Bashir si macchiarono della pulizia etnica dei non arabi nel Darfur – e l’esercito regolare guidato dal generale golpista Abdel Fattah al-Burhan. Difficilmente Masajed potrà leggerlo nei libri di storia. Sua sorella Manahil, si spera, potrà farlo. «Desidero che entrambe possano rimettersi e crescere, che stiano meglio. Vorrei vederle camminare e giocare insieme come facevano prima. Ma sono sola» confessa Touma al giornalista della “Bbc” che l’ha ripresa nel video pubblicato sul sito della testata britannica. Messa all’angolo da un destino che altri – i potenti del mondo, anche fuori dal Sudan – hanno imposto a lei e alle sue bambine, è stata costretta a una scelta atroce che nessun genitore del mondo crederebbe di poter sostenere. Ha dovuto decidere a quale delle due figlie pagare il costo degli antibiotici, perché non aveva i soldi necessari a sostenerlo per entrambe. Come abbia fatto il calcolo delle probabilità di sopravvivenza di ciascuna delle sue bambine, non è dato sapere. Touma ha scelto. Manahil è tra le sue braccia. Visibilmente malnutrita, eppure i medici hanno detto che ce la farà. Gli occhi sgranati, ma quasi inespressivi, di Touma sono puntati su Masajed. Chissà per quanto ancora. Per raggiungere l’ospedale, Touma e le sue bambine hanno coperto una distanza di duecento chilometri. «Siamo scappate portando con noi solo le nostre vite, senza cibo o denaro», racconta. «Non ho niente – conclude –, ho solo Dio». Dallo schermo, gli occhi chiusi di Masajed, visibilmente sofferente, interrogano. Chiedono ragione di ciascuno dei tre milioni di bimbi sudanesi sotto i cinque anni che rischiano di morire, come lei, di fame. Debilitati, ogni giorno di più, dalla malnutrizione che rende il corpo terreno di coltura per ogni tipo di malattie. Da luglio, stando ai dati Onu, si sono registrati oltre 122mila casi sospetti di colera nella vasta regione del Darfur, dove da mesi si concentra la violenza dopo che i governativi hanno ripreso il controllo di Karthum e di gran parte del Paese. Il capoluogo El Fasher è assediato, gli abitanti rimasti affrontano gravi carenze di cibo e acqua, con mercati quasi vuoti e prezzi alle stelle. Della guerra in Sudan, e dei suoi 12 milioni di sfollati, l’Alto commissario Onu per i rifugiati, Filippo Grandi, ha detto: «Non sono sicuro che il mondo se ne sia dimenticato, dal momento che non gli ha mai prestato granché attenzione». Davanti a quel lettino, Touma non ha la forza di chiedersi perché.
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