«Chi scende in piazza viene picchiato ma l'attivismo resiste»
La responsabile ActionAid per Haiti, Angeline Annesteus, racconta l’impegno dal basso e si chiede: la comunità internazionale ci vuole davvero ascoltare?

Organizzare incontri pubblici, costituire associazioni tra cittadini, creare un partito politico. Se altrove queste azioni sono capaci di generare un cambiamento nella società, ad Haiti sono quasi impossibili da mettere in pratica. La violenza delle gang, la miseria e l’impossibilità di movimento lasciano uno spazio di manovra minimo. A Port-au-Prince anche scendere in strada significa mettere in pericolo la propria vita. Ricordiamo alcuni episodi: nel 2019, durante proteste antigovernative, 20 persone vennero uccise e 200 ferite; nel 2022, durante un’altra protesta, una donna morì e altre decine furono colpite. Eppure, senza grandi clamori, anche ad Haiti germogliano azioni dal basso che riescono ad aprire spiragli di speranza sul futuro. Lo racconta qui Angeline Annesteus, direttrice di ActionAid Haiti, testimone della situazione: «Io sono haitiana e ho vissuto in prima persona tante delle difficoltà di cui scrivete – racconta Annesteus al telefono – Sono cresciuta con la convinzione che un giorno avrei aiutato la mia comunità». Ora, questo è il suo impiego quotidiano.
La situazione di Haiti appare senza speranza. Di che cosa ha bisogno il Paese?
La situazione è durissima. Viviamo una crisi istituzionale enorme perché non abbiamo un Parlamento, il sistema giudiziario è a pezzi, non c’è un presidente. Ed è proprio da qui che dobbiamo ripartire: il bisogno più urgente è formare una leadership politica nuova, composta da persone con una visione capace di trainare il Paese. Questo cambiamento può avvenire solo dall’interno del territorio, non dall’esterno.
“Attivismo” è una parola che ha ancora significato nel Paese?
Non è facile rispondere. Per alcuni anni a Port-au-Prince le proteste per strada c’erano, ma dal 2018 la repressione è diventata molto violenta. I manifestanti vengono attaccati sia dalle gang che da agenti dello Stato: nessuno vuole veder messo in discussione il suo potere. Ci sono state però delle eccezioni. Un caso di successo ad esempio ha riguardato il Parco industriale di Caracol realizzato dopo il terremoto del 2010 con i fondi arrivati dall’estero per la ricostruzione. Per costruire quel sito, centinaia di cittadini haitiani furono espulsi dalle loro case e videro le proprie terre espropriate. Per anni abbiamo lottato contro questa ingiustizia finché nel 2018-2019 abbiamo raggiunto un accordo storico: il governo, i gestori del parco e i responsabili degli aiuti UsAid che avevano permesso la sua costruzione hanno riconosciuto l’abuso e hanno risarcito le persone coinvolte.
Azioni simili sono state possibili anche recentemente?
È sempre più difficile, è innegabile. Dal 2023 la violenza delle gang è diventata pervasiva e abbiamo iniziato a vedere tanta stanchezza tra i cittadini. È diventato molto complicato anche fare rete: la capitale è isolata, l’aeroporto è rimasto bloccato per più di un anno e anche gli spostamenti via mare sono infattibili. Ma nonostante tutto, posso testimoniare che esiste una resilienza mista portata avanti da gruppi giovanili e organizzazioni femminili. Alcuni agiscono sui social network, altri organizzano incontri nelle proprie comunità o partecipano ad eventi in altri Paesi portando richieste precise. In quest’ultimo caso, rimane una domanda costante: ma la comunità internazionale – e mi riferisco soprattutto agli Stati Uniti – ci sta davvero ascoltando? Spesso l’impressione è che il benessere collettivo degli haitiani continui ad essere sacrificabile di fronte ad altri interessi.
C’è una storia di attivismo che ha particolarmente a cuore?
Sì, riguarda Esther, una ragazza che ho conosciuto per una formazione in un distretto a Sud di Port-au-Prince. Quella mattina ero lì per una formazione economica sulle risorse che servono per avviare un progetto. Stavamo parlando di quanto sia difficile reperire abbastanza finanziamenti. A quel punto Esther si è alzata in piedi e ha detto: “Sa una cosa? Qui non avremo mai le risorse di cui abbiamo bisogno, non ci saranno mai abbastanza soldi. Ma noi, come esseri umani, le risorse le abbiamo dentro di noi, ci sono già tutte”. Poi mi ha spiegato di essersi inventata, con quello spirito, un programma radiofonico per dare voce alle donne. Mi ha portata a visitare il suo studio. Era una stanzetta minuscola in una casa privata: si apriva a malapena la porta ma lei era riuscita a recuperare tutto il materiale necessario. Da quel momento come ActionAid l’abbiamo supportata e ora ha a disposizione uno spazio più grande. Penso che la sua storia sia il modo migliore per dimostrare che ad Haiti ci sono persone che non si fermano di fronte a sfide enormi. L’unica cosa che possiamo fare, e che anche la comunità internazionale sarebbe chiamata a fare, è non lasciare queste persone sole. Haiti può ripartire da loro.
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