Bosnia, la pace di Dayton compie 30 anni. Ma sembra più vecchia
Il capitolo più crudo della guerra nella ex Jugoslavia si chiuse il 21 novembre 1995 con l'intesa tra Slobodan Milosevic, Franjo Tudjman e Alija Izetbegovic

Il 21 novembre 1995, dopo settimane di estenuanti trattative nella base statunitense di Dayton, i tre signori della guerra in Bosnia Erzegovina, Slobodan Milosevic, Franjo Tudjman e Alija Izetbegovic, trovarono l’intesa che mise fine ai quattro anni della sanguinosa dissoluzione jugoslava. Accordo poi firmato dai leader regionali a Parigi, il 19/12/1995 alla presenza di Bill Clinton e degli altri protagonisti della mediazione. Per molti, fu un giorno di sollievo: la carneficina di oltre 100mila morti si fermava e le macerie lasciavano spazio alla speranza. Gli accordi di Dayton - 165 pagine corredate da 12 annessi e 102 mappe - sancivano la nascita della Bosnia-Erzegovina come stato unico, ma al suo interno imponevano divisioni etniche ben precise. Due entità autonome: la Federazione croato-musulmana, con il 51 percento del territorio, e la Republika Srpska, con il restante 49. Una scelta pragmatica che garantiva la pace immediata ma cristallizzava le linee di frattura che avevano scatenato il conflitto. Senad Pecanin, giornalista bosniaco che allora dirigeva il settimanale Dani, ricorda: “quello della firma fu un gran giorno, lo sognavamo da anni. Ma oggi, a trent’anni di distanza, la Bosnia porta ancora il peso di quella guerra terribile. Dayton non punì la Serbia politicamente, e i nazionalisti serbi ottennero metà del territorio nonostante i crimini che avevano commesso”.
Dal punto di vista militare e diplomatico, gli accordi furono un successo: fermarono le ostilità, permisero il dispiegamento delle forze internazionali della Nato, posero le basi per il ritorno dei profughi, il monitoraggio dei diritti umani e le elezioni sotto supervisione esterna. L’Annesso IV, che fungeva da costituzione provvisoria, segnava un primo passo verso un’istituzionalizzazione dello Stato, seppur fragile. Ma l’equilibrio raggiunto non ha mai cessato di rivelarsi precario. La pace concepita dai leader bosniaci come “continuazione della guerra con altri mezzi” ha ostacolato lo sviluppo economico e sociale. Le minacce di secessione avanzate dal leader nazionalista serbo Milorad Dodik, uomo forte della Republika Srpska, hanno alimentato tensioni costanti, dimostrando quanto l’architettura di Dayton abbia consolidato le divisioni etniche, invece di superarle. Un recente rapporto della Nato Parliamentary Assembly ha confermato che la pace di Dayton “tiene insieme da trent’anni una struttura ancora fragile”. Secondo Pecanin la persistente instabilità dei Balcani deriva dal nazionalismo, in particolare da quello serbo, e dall’influenza esterna di potenze come Russia, Cina, Ungheria e Turchia. “Prima della rinascita del nazionalismo con Milosevic – spiega – i Balcani condividevano il destino degli altri paesi europei dopo la Seconda guerra mondiale. Ma invece di integrarli nell’UE, sono state alimentate divisioni etniche che impoveriscono la regione”. L’apertura dei negoziati per l’ingresso della Bosnia nell’UE nel 2024 è stata salutata come un “momento spartiacque”, ma il superamento del modello Dayton è condizione necessaria per avanzare.
Oggi la Bosnia-Erzegovina si trova di fronte a un bivio. La pace regge ma l’architettura che la sostiene mostra crepe profonde e c’è chi teme che prima o poi da questi segni del tempo possa scoppiare una nuova guerra, anche tenendo conto della grave situazione geopolitica dell’Europa orientale. Trent’anni dopo Dayton, la lezione è chiara: senza riforme istituzionali, dialogo interetnico e volontà politica, la stabilità rimarrà fragile e la paura di nuove tensioni continuerà a incombere su chi vive in questa regione ancora così segnata dal passato.
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