Antoinette è stata condannata a morte. L'abbiamo incontrata
di Elena Molinari, inviata a St Gabriel (Louisiana)
In Louisiana è l'unica donna in lista per l'esecuzione. «Non posso restituire la vita a chi l'ho tolta, ma posso cambiare la mia. Durante l'isolamento il silenzio fa più paura delle urla. Io adesso sto imparando a pregare»

Quando la porta di metallo si apre, Antoinette Frank entra nella piccola sala colloqui trascinando i piedi. Le caviglie sono unite da una catena che la costringe a muoversi a passi minuscoli. Eppure non vacilla. Da trent’anni quelle maglie le stringono la pelle ogni volta che lascia la cella, tranne per la doccia. Ha avuto il tempo di abituarsi.
Un agente aggancia le manette a una barra che attraversa il tavolo di metallo e Antoinette è obbligata a tenere le dita intrecciate e i polsi sollevati, in gesto di perenne supplica.
Si sistema sulla sedia e sorride. Nonostante qualche ciuffo bianco, sembra più giovane dei suoi 54 anni. La camicia blu delle carcerate nel penitenziario femminile di Saint Gabriel, in Louisiana, è fresca e stirata. Lo sguardo è mite, le spalle prendono velocemente la postura di chi è abituato a occupare meno spazio possibile.
Guardandola, è difficile credere all’immagine che lo Stato della Louisiana ha mostrato di lei per quasi tre decenni: quella di una criminale spietata coinvolta nell’omicidio di tre persone. Una storia terribile che nel 1995 segnò la comunità vietnamita di New Orleans. Ma anche una storia raccontata a metà.
Oggi Antoinette è la sola donna nel braccio della morte della Louisiana e la prossima in lista per l’esecuzione. Cinquanta organizzazioni contro la pena di morte hanno chiesto alla Commissione per la concessione della grazia e della libertà condizionale dello Stato di commutare la sua condanna in ergastolo. Non negano la responsabilità di Antoinette, ma invitano a guardare l’intero arco della sua vita: «Una giuria pienamente informata – scrivono – non l’avrebbe mai condannata a morte». Antoinette lo ripete, con voce sottile e le vocali strascicate degli Stati del Sud: «Vorrei solo che vedessero la persona che sono oggi e quella che non ho potuto essere prima».
Secondo documenti clinici e testimonianze raccolte dalla difesa negli anni successivi al processo, Antoinette è sopravvissuta a un’infanzia che gli esperti definiscono «psicologicamente catastrofica». Suo padre, reduce del Vietnam con un grave disturbo post-traumatico, trasformò la casa in un posto dove la paura era costante: raptus violenti, animali di famiglia uccisi, tentativi di avvelenamento con il gas. «Costringeva me e i miei fratelli a restare per ore sui binari del treno», ricorda Antoinette. Le cartelle sanitarie dell’epoca raccontano che, quando aveva due anni, il padre, che già la picchiava, tentò di strangolarla.
A nove iniziò l’abuso sessuale; a undici, lo stupro, fino ai vent’anni, sempre da parte del padre, che portò a tre gravidanze, tre aborti forzati e quattro tentativi di suicidio. Quando la madre fuggì con tre dei quattro figli, Antoinette fu l’unica a rimanere. «Era come se fossi il prezzo da pagare perché gli altri potessero scappare», dice oggi, senza lacrime.
In quelle condizioni, spiegano gli psichiatri, la giovane sviluppò sintomi di dissociazione e una vulnerabilità estrema alla manipolazione da parte di uomini violenti. Come Rogers LaCaze, il giovane spacciatore che Antoinette cercò di “salvare” non appena riuscì a diventare agente di polizia e che, secondo numerose testimonianze, il 4 marzo 1995 irruppe nel ristorante Kim Anh dove Antoinette stava parlando con i dipendenti, uccise un agente di polizia e puntò una pistola alla testa di Antoinette, ordinandole di uccidere due dei figli del proprietario.
Durante il processo, nulla di questo fu presentato alla giuria. Nessuna voce raccontò gli anni di torture. La difesa non chiamò testimoni: un’assenza che il giudice della Corte Suprema della Louisiana, Pascal Calogero, definì anni dopo «un difetto fatale». La giuria discusse per meno di 45 minuti prima di condannarla a morte.
Oggi due dei giurati hanno firmato dichiarazioni in cui sostengono che «se avessimo conosciuto la sua storia, non avremmo votato per la pena capitale».
La fama di killer senza cuore ha seguito Antoinette nel braccio della morte, dove ha trascorso i primi 29 anni in condizioni durissime. «Ho passato mesi di fila in isolamento, sono stata trasferita fra diverse unità disciplinari – spiega – e non mi hanno mai offerto corsi o lezioni».
Le cose sono migliorate solo negli ultimi mesi, da quando è stata trasferita nella nuova struttura carceraria di Saint Gabriel, moderna e luminosa, con linee architettoniche e vetrate che ricordano più un campus universitario che una prigione. «È tutt’un’altra cosa – sottolinea –. Non solo è più pulito, le guardie sono più umane. E sono trattata come tutte le altre». Johnnie Jones, direttore del penitenziario, la definisce «la detenuta migliore dell’istituto» una «persona che non si lamenta mai, che cerca la tranquillità, aiuta le altre».
Anche senza programmi educativi formali, Frank ha letto molto e dai libri ha imparato «a cucire, a concentrarmi e a pregare, soprattutto nelle ore in isolamento, quando il silenzio fa più paura delle urla». La fede cattolica, scoperta in carcere, è diventata rifugio e guida grazie agli incontri con Angelo Nola, diacono della diocesi di Baton Rouge, che descrive una «conversione autentica» e una persona «passata attraverso prove inaudite, ma che non ha perso la speranza».
Antoinette parla della sua fede come di un lavoro quotidiano: «La preghiera mi ha permesso di riflettere sul mio passato e di cercare di comprenderlo senza fuggirne – dice ancora – e mi ha anche insegnato ad avere una voce, perché per tutta la vita non mi è stato permesso averne una».
Oggi quella voce è capace di esprimere un rimorso profondo. «Nessuno avrebbe dovuto morire quella notte – sussurra –. Non posso restituire le vite che ho tolto. Ma posso cambiare la mia. Posso essere onesta, utile, umile. Questo è tutto ciò che mi resta da offrire».
Il caso di Antoinette è diventato simbolico in uno Stato che continua a ricorrere alla pena di morte nonostante gravi disparità razziali e sociali. I numeri parlano chiaro: 42 dei 57 condannati a morte in Louisiana neri; 23 presentano disabilità intellettiva. Nove sono stati esonerati negli ultimi 24 anni.
Il caso di Antoinette si inserisce in questa storia di disuguaglianze e in un quadro nazionale in cui il 96% delle donne nel braccio della morte è sopravvissuta a violenze gravi e ripetute. La sua udienza di clemenza è fissata per il 16 dicembre e potrebbe essere l’ultima occasione per fermare una macchina giudiziaria affamata di punizione. Il nuovo governatore dello Stato, il repubblicano Jeff Landry, sostiene apertamente l’uso della sedia elettrica e del plotone d’esecuzione e vuole accelerare il più possibile il ritmo delle esecuzioni.
Ma ci sono anche voci contrarie. Sandra Babcock, giurista e una delle massime esperte sulle donne nel braccio della morte, è pronta a testimoniare alla Commissione che «è difficile immaginare qualcuno più meritevole di compassione di Antoinette Frank».
Alla fine del colloquio, Antoinette resta seduta, e, alzando gli occhi, timidamente, fa una richiesta, la sola che conta, in realtà: «Scriva che non cerco scuse, ma che vorrei che la mia vita fosse letta nella sua interezza». In meno di un mese, dieci persone saranno chiamate a farlo, e a decidere se Antoinette Frank debba essere vista come una persona o solo come il crimine che ha commesso.
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