Alla Cop di Belém il Sud del mondo vuole abbattere il muro del negazionismo
di Lucia Capuzzi, inviata a Belém
I “piccoli” vogliono unirsi e prendere in mano le redini della lotta per la difesa del clima. Ci riusciranno?

«Fare la Cop a Belém è una sfida grande quanto mettere fine all’inquinamento del pianeta». L’Amazzonia non ci ha messo molto per trasformare in realtà l’iperbole con cui Luiz Inácio Lula da Silva ha aperto la trentesima Conferenza degli aderenti Convenzione Onu sul cambiamento climatico, adottata proprio in Brasile, al vertice della Terra del 1992. Dopo ore di caldo sfibrante – le temperature nella “porta della foresta” sono già da due decenni di 1,5 gradi più alte del normale – una pioggia torrenziale ha fatto tremare i padiglioni, fin troppo colorati e luccicanti, del Parque de la Cidade dove, nei prossimi dieci giorni, si svolgeranno i negoziati per decidere come proseguire la lotta al riscaldamento globale dieci anni dopo gli Accordi di Parigi. Le vie d’accesso al centro congressi si sono trasformate in fiumi di fango mentre giornalisti e delegati hanno dovuto interrompere dirette e incontri perché il fragore del diluvio risucchiava ogni parola. “Bemvindos” – versione brasiliana di “Welcome” – alla “Cop della verità”, come l’hanno definita gli organizzatori, in risposta alla crescita del negazionismo ambientale.
«Mai si era vista tanta aggressività da parte dei politici nei confronti delle politiche ecologiche», ha affermato Laurence Tubiana, diplomatica francese, considerata una delle architette dell’intesa del 2015 che ha ridotto le previsioni di incremento delle temperature alla fine del secolo di oltre un grado: da 3,8 a 2,5-2.9. In base agli attuali piani di nazionali di taglio, presentati da 111 Paesi in vista della Conferenza – seppur in ritardo -, le emissioni dovrebbero ridursi di un ulteriore 12 per cento. La realtà, dunque, è inequivocabile. Da una parte le azioni di contenimento dimostrano di dare qualche risultato. Dall’altra, gli effetti del surriscaldamento sono usciti dai report degli scienziati per farsi quotidianità in gran parte del pianeta.
Nel Sud, in primis. Là – Repubblica Dominicana, Myanmar e Honduras in cima alla lista – si trovano le undici nazioni, per un totale di tre miliardi di abitanti, il 40 per cento della popolazione mondiale - più colpite da fenomeni estremi negli ultimi trent’anni, secondo l’ultimo Indice di rischio appena presentato dal prestigioso osservatorio Germanwatch. Nelle prime trenta posizioni, però, si trovano anche diversi Stati del Nord geopolitico, tra cui Francia e Usa – rispettivamente al dodicesimo e 18esimo posto – e, nel mezzo, l’Italia, in 16esima posizione. Dal 1995, l’emergenza climatica ha fatto 830mila vittime e causato danni per 4.500 miliardi di dollari diretti, al netto dell’inflazione. «Ed è appena l’inizio», ha tuonato Simon Stiell, il rappresentante Onu alla Conferenza: «Litigare mentre le carestie dilagano, costringendo milioni di persone a fuggire dalle loro terre d'origine… Una cosa del genere non sarà mai dimenticata». Una stoccata, nemmeno troppo velata, agli Usa di Donald Trump, convitato di pietra del vertice. La sua assenza – in anticipo di un anno sulla formalizzazione dell’uscita dal patto di Parigi – è onnipresente a Belém. Il tycoon – e la sua testa di ponte, il segretario di Stato, Marco Rubio – non si è limitato a tagliarsi fuori. Alcune settimane fa, Rubio ha minacciato sanzioni e aumento dei dazi nei confronti dei Paesi che sostenessero una tassa per le emissioni del trasporto marittimo internazionale, facendo naufragare l’iniziativa. Al “bullying” statunitense, si sommano le titubanze e fratture nell’Unione Europea dove le forze politiche più ostili all’ambientalismo avanzano. Un vuoto che il Sud globale può e deve colmare, assumendo un ruolo decisivo nella difesa della casa comune. È la scommessa, non senza ambiguità del Brasile di Lula, padrone di casa e grande tessitore di una Cop che ha fortemente voluto. La parola d’ordine, ripetuta nei corridoi del Palacio da Cidade, è «197-1 non fa zero».
In realtà, le delegazioni presenti sono 170, la sostanza, però, non cambia: di fronte alla defezione degli Usa – e qualche alleato – l’unica via è unire le forze. Da qui il principio guida, illustrato dal presidente del vertice, André Correa do Lago, è «mutirão», termine indigeno per indicare lo sforzo comune verso l’obiettivo. Smussando i punti d’attrito. Equilibrismo in cui Lula, ex sindacalista e storico mediazione, è maestro. Specie sul clima dove il suo governo, in minoranza in un Congresso in cui la lobby dei latifondisti è egemonica, vive la contraddizione di voler essere capofila della difesa ambientale, senza rinunciare al ruolo di potenza petrolifera. Il Brasile ha superato il primo test facendo approvare in tempi record l’agenda delle trattative in modo da iniziare subito i lavori e «aprire cammino camminando».
Le proposte aggiuntive degli Stati più vulnerabili su un’analisi degli impegni di tagli alle emissioni, i fondi per i Paesi poveri, la revisione dei meccanismi del commercio internazionale saranno gestiti in discussioni parallele: questa sera, in plenaria, si deciderà come integrarle nel negoziato principale. Il tutto mentre prosegue la battaglia per le sedi delle prossime Cop. Australia e Turchia si disputano la 31esima mentre l’Etiopia, non senza polemiche date le accuse al governo per la guerra in Tigray, sembra essersi aggiudicata l’edizione 2027. La speranza, questo scenario, è che per allora il «mutirão» di Belém abbia almeno indicato una direzione verso cui incamminarsi.
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