Abu Mazen: «Solo il dialogo può salvare la pace. Israele ora si fermi»
di Nello Scavo, Roberto Cetera
Dopo l’incontro con Papa Leone XIV e alla vigilia dei colloqui con Mattarella e Meloni, il presidente palestinese torna a parlare con Avvenire a un anno dalla sua prima intervista a una testata dopo il 7 ottobre.

«Forse non è più possibile tornare indietro», al tempo e al sogno della Pace che molti davano ormai per scolpiti con gli accordi di Oslo. Ma una via d’uscita per la Terra Santa c’è ancora. E tra amarezza e speranza, il novantenne presidente Abu Mazen in questa intervista si assume la responsabilità di indicare la strada per chi anche nel lontano futuro dovrà ancora assumersi la responsabilità della pace.
Dopo aver inaugurato a San Salvatore in Lauro “RebornBethlem”, la mostra dedicata al restauro della basilica della Natività, seguiamo la delegazione di Abbas fin nel suo albergo a Roma, tra ingenti misure di sicurezza. Un antico presepe napoletano e gli addobbi già approntati, richiamano già al Natale e anche «alle difficili condizioni a Betlemme, luogo di nascita di Gesù Cristo», dice il presidente.
Mahmoud Abbas, per tutti Abu Mazen, uscito dall’incontro con Papa Leone non si è sottratto alle domande consegnate da “Avvenire”, con cui ha più volte dialogato in passato e a cui aveva concesso nel novembre dello scorso anno la sua prima intervista a una testata giornalistica dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e la guerra scatenata da Israele su Gaza. La sua condanna per il 7 ottobre e per le strategie di Hamas sono note, tuttavia non chiude la porta alla possibilità che il gruppo, disarmato e riformato, possa avere un ruolo politico, a condizione che accetti l’autorità di Ramallah, riconosca la soluzione dei due Stati e rispetti gli impegni internazionali.
Il viaggio era iniziato mercoledì pomeriggio con una visita fuori protocollo, fortemente desiderata dall’anziano leader palestinese, alla tomba di Papa Francesco, nella basilica di Santa Maria Maggiore. Tra i due un rapporto amichevole che andava oltre la cortesia delle relazioni diplomatiche. Ieri mattina l’atteso incontro con Papa Leone XIV. Oggi i colloqui con Sergio Mattarella e GIorgia Meloni.
Presidente, ci sono ancora canali diretti tra Ramallah e Tel Aviv?
Le comunicazioni politiche dirette tra noi e il governo israeliano sono pressoché inesistenti da anni, a causa delle politiche estremiste dell’attuale esecutivo, che ha rifiutato gli impegni precedenti e ha continuato con la colonizzazione, con gli attacchi delle forze di occupazione e dei coloni contro il popolo palestinese, con il soffocamento dell’economia e il trattenimento delle entrate palestinesi, che superano i tre miliardi di dollari. A ciò si aggiungono l’indebolimento delle nostre istituzioni nazionali e la distruzione della soluzione dei due Stati.
Quindi ogni via diplomatica è stata interrotta?
Nonostante tutto manteniamo canali limitati a livello di sicurezza e sul piano umanitario, al fine di garantire la continuità della vita quotidiana, facilitare il lavoro delle istituzioni pubbliche e civili, del settore privato e di quello bancario. Perché la nostra prima responsabilità è proteggere il nostro popolo e consentirgli di lavorare, spostarsi tra le province palestinesi, viaggiare all’estero e rientrare in sicurezza.
Quello che descrive è un contesto quasi senza speranza.
Noi continuiamo a credere che il dialogo sia l’unica via per raggiungere la pace, ma esso non può avere successo in presenza di colonie, confisca delle terre, violazione degli accordi, esproprio di proprietà e risorse. Attendiamo che Israele si impegni a rispettare il diritto internazionale e le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, così da poter ricostruire la fiducia e riprendere un percorso politico serio.
Quale prospettiva realistica rimane oggi per gli Accordi di Oslo? Sono da considerare superati, o è possibile rilanciarli in un nuovo quadro di garanzie internazionali?
L’Accordo di Oslo del 1993 rappresentò un punto di svolta storico: aprì una prospettiva di speranza per i due popoli, stabilì un riconoscimento reciproco tra lo Stato di Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e tracciò un percorso verso la fine dell’occupazione e la realizzazione dello Stato palestinese nei territori occupati dal 1967, inclusa Gerusalemme Est. Tuttavia, i governi israeliani successivi hanno svuotato l’accordo del suo contenuto, proseguendo la colonizzazione e rifiutando l’attuazione degli impegni sottoscritti. L’attuale governo israeliano ha inoltre adottato misure discriminatorie e pratiche di pulizia etnica e aggressioni che violano il diritto internazionale, le cui manifestazioni più recenti sono i crimini di genocidio, distruzione e carestia nella Striscia di Gaza.
Sta dicendo che l’intesa non serve più?
Dal nostro punto di vista, forse non è possibile tornare alla situazione precedente, ma è possibile costruire sulle basi poste dall’accordo all’interno di un nuovo quadro e con garanzie internazionali chiare. È necessario un impegno per l’applicazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite e per un calendario vincolante che porti alla fine dell’occupazione e all’indipendenza dello Stato di Palestina entro i confini del 1967, secondo le decisioni della legalità internazionale e in linea con la Dichiarazione di New York, che prevede passi irreversibili verso l’attuazione della soluzione dei due Stati: lo Stato di Palestina che vive accanto allo Stato di Israele in sicurezza, pace e buon vicinato.
La tregua per Gaza può essere considerata un primo passo?
La nostra priorità attuale è stabilizzare il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, garantire l’ingresso degli aiuti tramite le agenzie delle Nazioni Unite per porre fine alla carestia attuale, ottenere il rilascio di tutti gli ostaggi e dei prigionieri, il ritiro delle forze di occupazione israeliane, avviare la ricostruzione e fermare tutte le misure unilaterali in Cisgiordania e a Gerusalemme, comprese le colonie, il terrorismo dei coloni e le aggressioni contro i luoghi santi islamici e cristiani, nonché liberare tutte le nostre entrate finanziarie trattenute. Solo allora le condizioni saranno mature per tornare al percorso volto a porre fine all’occupazione e raggiungere pace e stabilità nella nostra regione e nel mondo, secondo le risoluzioni internazionali e l’Iniziativa di Pace Araba. Noi non chiediamo l’impossibile: chiediamo di rinnovare l’impegno verso lo spirito originario di Oslo: pace, uguaglianza e convivenza tra due Stati e due popoli uguali in dignità e diritti entro confini riconosciuti a livello internazionale.
Quale ruolo dovrebbero svolgere oggi l’Unione Europea, l’Italia e la Santa Sede?
L’Unione Europea, l’Italia e il Vaticano hanno ruoli essenziali e complementari nel sostegno a una pace giusta. Apprezziamo le posizioni umanitarie e politiche dell’Europa, il ruolo dell’amica Italia negli aiuti, nello sviluppo e nella sicurezza, e le posizioni morali della Santa Sede, che richiama costantemente il mondo al dovere della coscienza di fronte alle sofferenze del popolo palestinese. Crediamo che l’Europa, insieme all’Italia e al Vaticano, possa costituire la garanzia morale e politica di qualsiasi nuovo percorso verso la pace, in coordinamento con gli Stati Uniti e i presidenti della conferenza internazionale: Arabia Saudita e Francia insieme a Italia, Regno Unito e agli Stati dei gruppi di lavoro dell’alleanza per una soluzione pacifica, attraverso il riconoscimento pieno dello Stato di Palestina, il sostegno agli sforzi internazionali per porre fine all’occupazione e l’accompagnamento del processo di ricostruzione di Gaza e di ricomposizione dell’unità dei territori palestinesi.
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