giovedì 4 novembre 2021
Gli Usa chiedono ai tigrini di fermare l'avanzata verso la capitale: i ribelli sono alle porte di Addis Abeba. L'Onu: violenze dai due fronti. Mai come ora il leader etiope rischia
Macerie di una casa devastata da un bombardamento aereo etiope a Macallè, nel Tigrai, 28 ottobre 2021

Macerie di una casa devastata da un bombardamento aereo etiope a Macallè, nel Tigrai, 28 ottobre 2021 - Reuters

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Un anno esatto di guerra civile nel Tigrai ha portato l’Etiopia sull’orlo del baratro. Il momento sembra infatti decisivo per le sorti del conflitto e forse dell’unità nazionale, ribaltando lo scenario di 12 mesi fa e con il rischio di destabilizzazione dell’intero Corno d’Africa. Addis Abeba è stata dichiarata in queste ore in pericolo, gli abitanti chiamati dal premier Abiy Ahmed a «difenderla da un possibile attacco» delle forze di difesa tigrine (Tdf) guidate dal fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf) e dagli alleati dell’esercito di liberazione Oromo (Ola). Ieri il Parlamento ha approvato lo stato di emergenza mentre Abiy ha accusato i nemici di «voler trasformare l’Etiopia in una Libia o in una Siria ». Washington è intervenuta martedì per intimare a Tpdf e Ola, che hanno conquistato le città strategiche di Dessie e Kombolcha dopo la disfatta dell’esercito federale e sarebbero a meno di 100 chilometri dalla capitale, di fermare l’avanzata esortandoli al dialogo per raggiungere un cessate il fuoco. Ma la Cnn dava tigrini e oromo addirittura «già alle porte di Addis Abeba» e l’ambasciata Usa in Etiopia ha invitato i propri cittadini a lasciare il Paese. Il segretario dell’Onu Antonio Guterres ha ribadito «che è in gioco la stabilità del Paese e dell’intera regione» chiedendo «l’immediata cessazione delle ostilità, accesso umanitario illimitato e dialogo nazionale».

La situazione è molto diversa da quella immaginata da Abiy e dai suoi alleati, le milizie regionali Amhara e le truppe eritree, che ora fanno i conti con una possibile uscita di scena di colui che veniva considerato l’uomo nuovo del Continente dopo aver vinto il Nobel per la pace nel 2019. Scenario impensabile all’alba di 365 giorni fa, quando scattava il primo bombardamento dell’aviazione federale su Macallè, capoluogo tigrino, per ritorsione contro un attacco delle forze regionali alle basi etiopi nella regione. Veniva contemporaneamente sospesa l’erogazione di elettricità e chiusi gli accessi allo stato regionale settentrionale con l’allontanamento del personale umanitario Onu e delle Ong occidentali, scomodi testimoni. In quelle prime ore di «guerra oscurata», le truppe federali e gli alleati eritrei invadevano la regione, questi ultimi negando ufficialmente la loro presenza. Abiy sarà costretto dalle evidenze ad ammettere di aver mentito sugli eritrei a marzo 2021. La guerra del neo Nobel per la pace doveva durare sulla carta poche settimane. Ogni tentativo di mediazione di organizzazioni internazionali e paesi al- leati veniva respinto perché l’Etiopia considerava la guerra un’operazione di polizia contro un gruppo dichiarato «terrorista», il Tplf, suoi arcinemici e predecessori alla guida del governo federale dal 1991 al 2018. Il 28 novembre Abiy sembrava averli sconfitti entrando a Macallè. In realtà si chiudeva solo la prima fase del conflitto in cui i leader tigrini, molti dei quali alti ufficiali dell’esercito federale, vista la superiorità numerica (l’Etiopia ha 110 milioni di abitanti, il Tigrai sei) e militare dei nemici, si ritiravano sulle ambe e le caverne per avviare una guerriglia vittoriosa contro il giovane esercito etiope sfiancando anche i più esperti eritrei. Li ha guidati il generale a riposo Tsadkan Gebretensae, stratega della lunga guerra contro il Derg finita nel 1991 e di quella del 1998 contro le truppe di Asmara.

Una madre tigrina con il figlio nel campo di Um Rakuba in Sudan che ospita migliaia di sfollati attraverso il vicino confine etiope

Una madre tigrina con il figlio nel campo di Um Rakuba in Sudan che ospita migliaia di sfollati attraverso il vicino confine etiope - Ansa

Un anno fa è iniziata anche una spirale di violenze e crimini di guerra commessi soprattutto sui civili tigrini da eritrei, etiopi ed Amhara e poi dalle forze del Tplf una volta cominciata a giugno la controffensiva nella regione amarica. Un rapporto diramato ieri e curato dall’Alto commissariato Onu per i diritti umani con la commissione governativa etiope indipendente afferma che è «ragionevole » credere che tutte le parti del conflitto abbiano commesso violazioni del diritto internazionale e umanitario, oltre a «crimini di guerra e contro l’umanità» compresi gli stupri di massa e le violenze su donne e bambini. Ma gli stessi autori del documento hanno denunciato «diversi problemi operativi, amministrativi e di sicurezza durante il loro lavoro» per giustificarne l’incompletezza. Michelle Bachelet, Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, ha comunque denunciato la «brutalità estrema» del conflitto. Critiche al documento sono arrivate sia dal Tplf, per il mancato coinvolgimento, sia dal regime eritreo, pesantemente accusato. Mentre l’economia etiope è crollata, la situazione umanitaria in Tigrai è diventata oggettivamente un’emergenza.

Da giugno l’Onu e le organizzazioni umanitarie internazionali, dopo aver lanciato l’allerta per sei mesi, parlano di carestia provocata da mano umana con la distruzione di raccolti e strutture sanitarie e il blocco degli aiuti. Il conflitto ha provocato finora 63mila profughi in Sudan, causato quasi 2,7 milioni di sfollati interni mentre almeno 500mila persone – soprattutto bambini e neo-mamme – rischiano di morire di fame al ritmo di 400 al giorno. Non si sa ancora quante siano le vittime della guerra, stime non ufficiali dicono decine di migliaia. Il futuro è perlomeno incerto. Biden ha appena annunciato che revocherà le preferenze commerciali accordate all’Etiopia, ma l’inviato Usa per il Corno Feltman (in arrivo oggi ad Addis Abeba per mediare) ha ribadito che Washington non vuole un ritorno del Tplf alla guida del Paese. Nessun cenno all’Eritrea, il cui dittatore è considerato, da molti osservatori, dai tigrini (e sottovoce dagli Usa) l’ispiratore del conflitto. Non sono un mistero le mire territoriali dell’ala secessionista del Tplf sull’ex colonia italiana per creare il Grande Tigrai ed eliminare il despota Isaias Afewerki. Che ha da tempo avviato una campagna di reclutamento a tappeto nello Stato-caserma, minacciando i contadini se i figli non si arruolano. L’esercito starebbe scavando trincee a ridosso del confine. E se la comunità internazionale non interviene, la guerra può continuare sul Mar Rosso.

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