giovedì 24 giugno 2021
Lo scopritore di ebola: «Adesso serve che la lavorazione avvenga anche altrove, l’Africa ha bisogno di crearli in casa». Non è un’utopia. È una cosa che va fatta perché non abbiamo alternative.
Peter Piot, fino al 2008 è stato sottosegretario delle Nazioni Unite

Peter Piot, fino al 2008 è stato sottosegretario delle Nazioni Unite - Ansa

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Peter Piot è il microbiologo belga che nel 1976 partecipò alla spedizione di scienziati in Zaire che identificò ebola, il tremendo virus che ha ucciso in diverse regioni africane. Pioniere nella ricerca sull’Hiv, è stato direttore del programma delle Nazioni Unite contro l’Aids (Unaids) e da undici anni dirige la London School of Hygiene & Tropical Medicine, centenaria università britannica specializzata in salute pubblica e malattie tropicali. Soprannominato il «cacciatore di virus», Piot, che dallo scorso anno è anche consulente della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, per il Covid-19, ha dedicato gran parte della sua vita a combattere le malattie e la sofferenza che la povertà estrema di Paesi come l’Africa spesso rende «intollerabile». Quasi «ossessionato» dall’idea di salvare quante più vite umane possibile, la sua voce si è aggiunta al coro di quanti, primo fra tutti papa Francesco, da mesi invocano un equo accesso ai vaccini contro il coronavirus.

Nessun Paese può dirsi al riparo dal Covid fino a quando tutte i Paesi lo saranno. L’idea di vaccinare il mondo è realmente percorribile o è un’utopia?

Non è un’utopia. Semplicemente, è una cosa che va fatta perché non abbiamo altre alternative. La vera questione è un’altra…

Quale?

Quanto velocemente riusciremo a farlo. Ciò dipende dalla fornitura di vaccini. Non ce ne sono ancora abbastanza. Lo sforzo produttivo richiesto è senza precedenti e, certo, la situazione cambierà nei prossimi mesi. Il problema è che ne abbiamo bisogno «adesso».

Joe Biden ha detto di essere disposto a sostenere la temporanea sospensione dei brevetti sui vaccini. È questa la strada da seguire e non, come ha fatto l’Europa, limitarsi a donare dosi?

Quando ho sentito l’annuncio Usa mi sono chiesto quale documento sarebbe seguito. Quando ho capito che la posizione era limitata all’effetto annuncio sono rimasto deluso perché non avrebbe fornito un solo vaccino in più, ora, immediatamente. Gli Stati Uniti hanno bandito l’esportazione di alcuni elementi necessari alla sintesi dei vaccini e questa posizione, assunta da Trump, non è stata rivista. Per questo, in tutta onestà, ho pensato che fosse molto ipocrita. A me interessano i fatti. Il nazionalismo vaccinale è una posizione che posso anche capire dal punto di vista politico. Resta il fatto che l’equo accesso ai vaccini sia una necessità, non solo un imperativo morale. Se non vacciniamo il mondo intero, soffriremo tutti. Quindi, cosa bisogna fare? Priorità assoluta per me è svi- luppare la capacità di produzione di vaccini ovunque. Anche in Africa. Ci vuole tempo, ovvio, ma bisogna cominciare a lavorarci da adesso, avviando il trasferimento tecnologico, altrimenti non ci arriveremo mai. Nell’immediato è importante puntare sulla condivisone dei vaccini disponibili. Penso che ogni Paese debba condividere tra il 10% e il 20% di quello che ha, anche se la popolazione non è completamente vaccinata.

I Paesi in via di sviluppo hanno competenze e strumenti per produrre vaccini?

Diverse nazioni a medio e basso reddito già lo fanno. L’India, per esempio, produce più vaccini di qualsiasi altro Paese al mondo. Adesso abbiamo bisogno che la produzione avvenga anche altrove. L’Africa ha bisogno di produrre vaccini in casa. Le competenze non sono tante ma ci sono, per esempio in Kenya, Senegal o Sudafrica, e comunque si possono costruire. Alcune istituzioni sanitarie africane, come il centro per il controllo delle malattie, sono molto ben gestite.

Qualche settimana fa lei ha affermato che il drammatico scenario pandemico in India era un’anteprima di ciò che avremmo visto in Africa. Qual è la situazione adesso?

È questa la più grande preoccupazione. Certo, il futuro non è prevedibile, ma ci sono molte similitudini, come ad esempio la densità della popolazione e i bassi livelli di vaccinazione. Poi non c’è ossigeno. In alcune zone dell’Africa meridionale, inoltre, è inverno e le persone tendono a stare insieme all’interno. Al momento c’è un aumento piuttosto consistente del numero di nuovi casi.

Nel 2000 lei ha negoziato per conto di Unaids la sospensione dei vincoli per i farmaci contro l’Hiv nei Paesi in via di sviluppo. Qual è la lezione che ha tratto da quell’esperienza?

Quelle trattative furono molto lunghe e lente: durarono 10 anni. Funzionò l’approccio pragmatico, ispirato al detto cinese «non importa che il gatto sia bianco o nero ma che acchiappi i topi». Negoziazione insieme a esercizio di molta pressione. Fondamentale ai fini del risultato credo sia l’impegno politico e la leadership, anche quella morale. E papa Francesco la incarna.

Pensa che il fronte occidentale «no vax», possa influire sul sud del mondo?

Purtroppo, sì. Ci sono già diverse prove al riguardo. Per esempio, per effetto dei social media nella zona francofona dell’Africa occidentale.

Il peggio è passato?

Penso che il peggio sia passato in Europa, ma per l’Africa potrebbe ancora arrivare.

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