Suicidio assistito: per il nostro ordinamento conta la vita del malato

di Riccardo Mensuali
Avvenire apre uno spazio per mettere a fuoco punti fermi e valori in questione nel dibattito sul fine vita e su una possibile legge. Cominciando dal chiederci cosa conta
October 10, 2025
Suicidio assistito: per il nostro ordinamento conta la vita del malato
Cosa significa oggi curare le persone in situazioni di sofferenza estrema? Serve una nuova legge sul fine vita? Che princìpi deve rispettare? E qual è il confine tra tutela della vita e della libertà? Con la serie di articoli "Scegliere sulla vita" ascoltiamo voci e sensibilità differenti, in dialogo tra loro. Interviene don Riccardo Mensuali, sacerdote e giurista.
Quando si tratta di vita e di morte, si allude a un territorio profondamente intimo e personale. Inviolabile. Eppure, il morire non è fatto solo privato: da come uno Stato governa temi quali la malattia e il fine vita si deduce il grado di civiltà, espressa nell’attenzione a chi è più fragile.
Quale spazio la nuova legge dovrebbe coprire, dopo che il tema è stato già in parte normato? L'Italia, infatti, si è dotata, nel 2010 di una preziosa legge sulle cure palliative – anche se il Paese non ha sviluppato in maniera omogenea, sul territorio, un sistema di cure palliative –, poi nel 2017 della legge 219 che norma la realizzazione del diritto di rifiutare le cure, o interromperle. La Corte ha novellato l’articolo 580 del Codice penale, circoscrivendo una ristretta area di non punibilità dell’assistenza al suicidio. È tornata sul tema con quattro successive sentenze, tutte recenti. L’insieme di questa nuova normativa è già in grado di affrontare moltissime situazioni.
È auspicabile che lo spirito che anima questo tempo di ius condendum sia il più vicino possibile a un vero dialogo costruttivo, che diventa tale solo se disposto a fare spazio anche alle posizioni altrui. Se no, più che dialogo, rimane contrapposizione di opinioni, pur legittime.
Ogni tanto, si rivolge proprio alla Chiesa un’obiezione: non sarebbe misericordiosa perché insisterebbe sul valore della sofferenza. Non v’è dubbio sul fatto che un Dio compiaciuto del soffrire umano sia una caricatura del suo vero volto, ritratto da quello di Gesù. Che ha sofferto lui, intanto, crocifisso, non ha fatto soffrire altri, costringendoli al dolore. Anzi, col malato ci si è identificato. Quando ti abbiamo incontrato? Quando mi avete visitato, sofferente.
La Chiesa ha una lunga storia di cura, guarigione e vicinanza ai malati. Una passione che si è realizzata, nei millenni, in ospedali, progetti, case di cura e di sollievo. O in gesti gratuiti e diffusi ovunque nel segreto del vero amore, quello che fa vivere un tempo che, se è senza futuro, non per questo sarà senza senso. Il vero volto della Chiesa è quello di una comunità vicina al malato, per curarlo anche quando non è possibile guarirlo. Fin dal Vangelo del buon samaritano.
Ma le leggi le fanno gli Stati. I cattolici possono dire la loro, con un contributo prezioso, con opinioni ispirate dalla stessa fede ma non uniformi. La parola “compassione”, secondo alcuni, dovrebbe entrare anche nel diritto penale, nella fattispecie dell’attenuante dell’omicidio pietatis causa: uccidere qualcuno perché ti fa pena che soffra. Già nel 2018 i giudici della Cassazione si interrogavano se nel “sentire comune” la compassione non stia cominciando a comprendere l’eliminazione del dolore per mezzo dell’eliminazione di chi lo sente. Dissero che no, la pietà non è compatibile con l’atto di sopprimere la vita. Una decisione importante. Non c’è molto da fidarsi, però, del “sentire comune”, così volubile. Della “emozione popolare”. Il populismo penale non dovrebbe avere il potere di ridefinire la compassione. Non si può dire “l’ho uccisa perché l’amavo”. Né è per compassione che uno Stato potrà definire un aiuto a morire per chiunque lo dovesse chiedere: davanti a una richiesta di sostegno a morire il primo passo è verificare se non si nasconda, per essere rivelata, una domanda di vita ulteriore, migliore. Non sempre sarà così. Non ogni volta la domanda di morte è richiesta di vita. Eppure, lo “spirito” costituzionale coincide con la ricerca di soluzioni, quando il cittadino ha un problema: riabilitare il prigioniero, curare un malato, sostenere un indigente, assicurare denaro e servizi a chi non può lavorare.
Nel progetto del Governo si legge, con soddisfazione, di una particolare attenzione alle cure palliative. Si fa riferimento a un “obbligo” che è solo nel proporle, sostenendole finanziariamente, visto che nessun cittadino potrà mai essere obbligato a niente, in base all’articolo 32 della Costituzione. Si tratta, se confermata, di una soluzione necessaria, capace di mandare un messaggio chiaro: lo Stato, innanzi tutto, ai malati propone un trattamento. Non significa guarigione: significa farsi carico di un certo tipo di cura, come primo passo. E il titolare di questo “dovere” è, in Italia, il Servizio sanitario nazionale. D’altra parte, l’ordinamento tutela, come bene giuridico, la vita e non la sofferenza. Tutela la libertà di non curarsi, anche quando il rifiuto della cura coincide con il rifiuto della vita. E difende in maniera definitiva lo spazio privato di una coscienza che si autodetermina, liberamente. Dunque, va presa in considerazione l’apertura all’accesso al suicidio assistito della Corte, che si occupa dello specifico tempo del malato che sa di andare presto incontro alla morte. Prima di quanto credesse. La Consulta indica di considerare quella porta stretta che è il tempo breve della persona che sa di morire, rifiuta o interrompe le cure, anche palliative, mentre si forma una coscienza del senso dei giorni rimasti. E domanda un’assistenza al vivere morendo. Morendo comunque. Morendo ancora prima.
Il Parlamento è chiamato a stabilire una normativa su questo “spazio” che in realtà è un tempo breve, perché nessun cittadino sia lasciato solo o discriminato. E su come, con un robusto rafforzamento del percorso di cure palliative, poter offrire una via per lasciare con dignità questo mondo. C’è una parte del Paese che riterrà questi criteri, già indicati dalla Consulta, troppo restrittivi. Come se l’Italia fosse un Paese crudele, dove non è facile smettere di soffrire. Al contrario, offrire – almeno – alternative alla morte è proprio della creatività della carità. E bisogna saper ridire le ragioni per evitare la deriva – questa sì, cinica – di un pericoloso e crudele pendio scivoloso che lasci credere come sia più facile che qualcuno ti aiuti a morire invece che a vivere meglio. Non ci sarà alcun motivo per sentirsi vagamente in colpa o meno civili, siccome in altri Paesi è più facile morire. Avere attenzione a che non si allarghi la platea di chi possa farsi sostenere nel morire non è indifferenza al dolore. È vero il contrario: per il nostro Paese conta la vita della persona malata, non solo la sua morte. Il mondo, al momento, pare già piuttosto propenso a dare più la morte che la vita. Questa attenzione sarà la responsabilità di uno Stato laico, non paternalista ma con dei valori forti, che sulla base dello spirito della sua Carta fondamentale, cerca soluzioni da offrire, senza imporle. Salvaguardando una libertà sempre possibile.
In un hospice toscano dove i malati gravi e terminali vengono curati anche se non possono guarire un ospite ha lasciato questo messaggio, poco prima di morire: «Mi avete rimesso al mondo». In apparenza, solo una contraddizione. Al contrario, sono le parole più preziose che possono guidare un legislatore attento alla libertà di coscienza dei cittadini come al valore supremo della vita: lasciare che una persona decida di morire, solo dopo averla “rimessa al mondo”. Una misericordia più complessa e laboriosa ma certo più vicina alla felice sintesi tra libertà e solidarietà, tra “l’io e il noi”, che tanto lavoro costò ai padri costituenti.
Sacerdote e giurista

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