Per la prima volta siamo vicini a un mondo senza pena di morte
Mai così tanti Paesi hanno abolito gli “omicidi di Stato”. Ma molto resta da fare: siamo da anni in mezzo a una “guerra mondiale a pezzi”, serve una cultura della vita

Il 1° agosto 1975 c’era un bel clima tiepido, quando a Helsinki la Conferenza sulla Sicurezza e la cooperazione in Europa segnava l’inizio di una distensione possibile tra Est e Ovest. Tra l’altro, si indicava anche la strada per rinunciare a quello strumento disumano e degradante che è la pena capitale. Allora erano appena 16 ‒ e tra questi l’Italia ‒ i Paesi che avevano abolito nel mondo la pena di morte. L’anno scorso è stata usata da 15 Stati, mentre 184 non l’hanno praticata, anche se le esecuzioni conosciute nel mondo sono diventate 1.518 da 1.523 dell’anno precedente. Sono 145 i Paesi che l’hanno abolita per legge o abbandonata da più di dieci anni. E all’Onu la Risoluzione per una Moratoria universale delle esecuzioni ha raggiunto 130 “sì” dai 103 che furono quando venne approvata per la prima volta al Palazzo di Vetro nel 2007. Ero lì, ci avevamo lavorato a lungo, con la Comunità di Sant’Egidio, sostenendo anche l’azione diplomatica di Italia e Unione Europea. E continuiamo a lavorare per questo. Il 30 novembre più di 2.500 città nel mondo hanno riempito piazze, aule di università, teatri, illuminato monumenti, nel movimento delle Città per la Vita, le Città contro la Pena di Morte, unendosi al Colosseo, diventato il testimonial della vita più famoso del mondo. Erano appena 58 città nel 2000.
Siamo a una svolta, dal Codice di Hammurabi in poi, e sta accadendo quello che è successo per la schiavitù e la tortura: cambia, su questo, lo standard etico minimo del mondo. Anche se i Paesi che la usano la praticano però più intensamente, in maniera spudorata: Iran e Arabia Saudita – sono fuori dai calcoli Cina, Vietnam e Corea del Nord per carenza di notizie – hanno ucciso più del 90 per cento di tutti i condannati a morte. Poi vengono Iraq e Yemen. Dagli Usa al Giappone all’Egitto, si continua a non chiamarla per quello che è: un assassinio fatto dallo Stato. Per coprire la realtà si usano altre parole “giustiziare” o “eseguire”. Anche se è la guerra di un intero Stato contro un individuo, detenuto. A Roma si è celebrato in Parlamento un Congresso di ministri della giustizia e giuristi da una ventina di Paesi, abolizionisti e “retenzionisti”. C’è stato un cambiamento di prospettiva. La linea di demarcazione nel mondo è stata un’altra: tra rimanere passivi davanti a una cultura di morte o, invece, resistere e creare alternative per società in cui è possibile ricostruire e riaffermare una cultura della vita. Visionari, perché un mondo senza pena di morte si sta avvicinando per la prima volta nella storia dell’umanità. Ma non ingenui. Perché soffia un vento di morte, di esecuzioni sommarie, di guerre come se fossero il modo normale di risolvere i problemi. E poi perché è in corso un riarmo mondiale, e si abituano le opinioni pubbliche al fatto che sia ineluttabile. In un tempo in cui manca l’immaginazione della pace e si afferma ai massimi livelli, tra gli Stati, la legge del più forte.
C’è una relazione stretta della pena capitale con i 292 milioni di esseri umani che fanno uso di sostanze stupefacenti, una persona ogni trenta (e crescono da 28 anni). Questo fallimento del mondo racconta che il fentanyl da solo, negli Stati Uniti, ha mietuto più di centomila vittime ogni dodici mesi anche se nell’ultimo anno sono morte “solo” 87.000 persone: più del 42% di tutte le esecuzioni conosciute nel mondo sono state per crimini legati al traffico di stupefacenti. Ma si vuole comunque la pena di morte per i trafficanti di droga, per i terroristi – che non la temono, anzi vivono e si ingrassano di morte. Anche Israele sta per versare vergogna sui suoi cittadini con la pena di morte per “terrorismo”. Siccome gli Stati non sanno cosa fare, fanno esecuzioni capitali. Non c’è nessun rapporto tra le esecuzioni capitali e i crimini gravi. In Texas avvengono un quarto di tutte le esecuzioni americane. E accade in 2 contee su 3.142 che ne ha gli Stati Uniti. La pena di morte dipende dalla geografia, non dalla sicurezza. In Corea del Sud e in Giappone gli omicidi sono alcune centinaia all’anno, ma i suicidi sono, rispettivamente, 14.500 e più di 20.000. Migliaia di anziani muoiono da soli in casa, ritrovati dopo giorni e settimane. Serve una cultura della vita. Siamo da anni in mezzo a una “guerra mondiale a pezzi”. Occorre disinnescare questa pigra assuefazione a una cultura di morte che contiene rischio nucleare e riarmo mondiale, svuotandone il simbolo: una “pena di morte a pezzi”. A una cultura della morte che si sposa con il vitalismo della forza occorre rispondere con una cultura della vita, capace di riconoscere, di nuovo, i tratti umani dell’altro.
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