L'ansia dei genitori convince i figli che il mondo è "ostile"
di Marco Erba
Genitori che dotano i bambini di dispositivi di localizzazione trasmettono l’idea che la società e gli altri sono fonte di esperienze negative. Ma così gli impediscono di rischiare. E di crescere

“Ho comprato il cellulare a mio figlio, anche se è ancora molto piccolo, perché almeno so dov’è e se ho bisogno di rintracciarlo mi può rispondere.” Quante volte abbiamo sentito questa frase?
Peccato che poi gli adolescenti e i preadolescenti al cellulare non rispondano quasi mai: se sono in giro con gli amici e li chiami, il telefono squilla quasi sempre a vuoto. Poi mandi un messaggio e in pochi minuti, quando non in pochi secondi, ti hanno già risposto che va tutto bene.
Però il telefonino ce l’hanno: possiamo stare tranquilli, la nostra ansia di genitori ha un palliativo che la tiene sotto controllo.
Autorevoli psicologi e studiosi del cervello invitano a concedere il cellulare ai propri figli il più in là possibile: più tardi è, meglio è. Sconsigliano, ad esempio, di regalare il telefonino per la prima Comunione. Nonostante ciò, tantissimi genitori scelgono di dare i cellulari precocemente: “Tutti i compagni ce l’hanno, non voglio che mio figlio resti escluso. E poi mi sento più tranquillo.”
Ma quando i bambini sono davvero troppo piccoli per avere un telefonino, come stare tranquilli e placare le ansie?
L’ho scoperto da una conoscente, insegnante alle elementari. La sua scuola aveva organizzato una gita con dei bambini di seconda. La meta era fuori regione, ma a solo un’ora e mezza di viaggio. Quell’insegnante, poiché tende a perdere le chiavi, aveva inserito nel suo portachiavi un localizzatore. Quando me lo ha raccontato, ignoravo di cosa si trattasse, poi ho cercato in internet e ho scoperto che questi piccoli localizzatori si acquistano in un attimo, si agganciano agli oggetti che vogliamo sempre essere in grado di recuperare e se ne controlla la posizione attraverso il telefonino.
Durante il viaggio in pullman, l’insegnante ha notato che il suo smartphone rilevava tre nuovi localizzatori lì vicino. Nessuno di questi era quello del suo mazzo di chiavi. Ha chiesto alle colleghe, ma loro un localizzatore non lo avevano. Ha pensato che fossero di oggetti posti in qualche automobile che viaggiava lì vicino, ma non era così: i localizzatori erano proprio lì, sul pullman. Così la maestra si è alzata, ha camminato tra i sedili e ha provato a individuarli. Si è fermata davanti a un bambino. Ha guardato se ci fosse qualcosa per terra o nel portaoggetti del sedile. Niente. Alla fine è stato il bambino stesso, titubante, a rivelarglielo: era lui ad avere un localizzatore, chiuso in una tasca interna dello zaino. Glielo avevano dato i suoi genitori. In questo modo, ha spiegato, potevano vedere dove fosse dal loro telefonino. E quel bambino non era l’unico: c’erano altri due bimbi localizzati in tempo reale.
L’insegnante è rimasta basita: i genitori avevano portato i loro figli fino al pullman e li sarebbero andati a riprendere nel punto di partenza. C’erano diversi adulti coi bambini, per tutto il tempo: che bisogno avevano di sapere esattamente dove i figli si trovassero?
Alla fine della gita, forse un po’ ingenuamente, la maestra lo ha chiesto direttamente ai genitori. Reazione? Se la sono presa, si sono arrabbiati, hanno polemizzato, hanno detto che non toccava a lei mettere il becco in queste cose. L’insegnante, saggiamente, ha battuto in ritirata: dove non c’è alcuno spiraglio di dialogo purtroppo è inutile insistere.
Se è doveroso aver cura dei nostri figli, dedicare loro tempo e attenzione, essere presenti nella loro vita, credo però che un’ansia eccessiva, una pretesa di controllo e di sicurezza assoluta sia più dannosa che utile. È vero, il mondo può essere anche molto pericoloso, ma si diventa grandi anche rischiando. Non si possono sottrarre gli adulti di domani a una certa dose di rischio: si cresce anche così. I nostri figli respirano il nostro atteggiamento verso la vita e gli altri: lo sentono a pelle, prima di qualsiasi discorso. Se, in nome della cura, cadiamo in una eccessiva ansia, il rischio è che i nostri figli vivano il mondo come un posto cupo, sentano le altre persone come ostili: potenziali nemici, invece che potenziali alleati. Così, però, non si vive più. Se i nostri figli sanno che li teniamo sempre sotto controllo, che possono rivolgersi a noi in qualsiasi momento, anche a distanza, rischiano di non imparare a chiedere aiuto a chi incontrano. E chiedere aiuto è una cosa che spinge a mettersi in gioco, a maturare, a cavarsela.
Penso a due episodi accaduti ai miei figli, che, in prima media, non avevano il cellulare, minoranza assoluta nella classe. Entrambi i miei figli sono sempre andati a scuola in bicicletta. Mia figlia, un giorno è caduta sulla pista ciclabile: si è sbucciata un gomito e un ginocchio. È arrivata a casa scortata dalle sue amiche. Era scossa, aveva gli occhi lucidi, ma le sue compagne non l’avevano abbandonata. Non solo: le amiche ci hanno raccontato che quando era caduta si erano fermati due passanti: erano corsi lì, l’avevano aiutata a rialzarsi, l’avevano tranquillizzata. Io credo che, al netto della paura, quell’esperienza sia stata fortemente formativa per lei: nella vita capita di cadere, di essere in difficoltà, ma ci sono persone che sono pronte a darti una mano. Non sempre è così, certo, ma può anche essere così. Della vita, degli altri, ti puoi fidare.
In un’altra occasione qualcuno ha rubato la bicicletta di mio figlio. Quando è accaduto ci è rimasto male: non sapeva come fare, cosa dire, come tornare. Un suo compagno di classe allora è rimasto con lui, lo ha invitato a seguirlo fino a casa dove suo nonno lo aspettava. Quel nonno lo ha riaccompagnato. Quando mi sono visto comparire mio figlio, il suo compagno e quel nonno, che mi ha raccontato com’era andata, non smettevo più di ringraziarlo: mi ha commosso come, col sorriso, abbia fatto un gesto di solidarietà così semplice e abbia interrotto ciò che stava facendo per prendersi a cuore un undicenne appiedato.
Qualcuno mi accuserà certo di essere troppo ottimista, di non vedere i pericoli che ci sono. Io credo che il problema più grave sia invece vedere pericoli dove non ci sono. La superficialità, il non rendersi conto dei pericoli, è molto grave e dannosa, ma lo è almeno altrettanto un’ansia eccessiva, che inquina la vita in ogni suo aspetto.
Amare non è trattenere, è lasciare andare. Amare è accettare che, progressivamente, i nostri figli diventino sempre più autonomi, si allontanino da noi, imparino a nuotare allontanandosi dalla spiaggia e dalla battigia. Imparino a cavarsela. Non è un processo che può avvenire di botto, ma a piccoli passi: come quando si inizia a camminare da piccoli. Un passo può essere una gita scolastica, spazio di libertà e di avventura con i compagni e le maestre, lontano dagli occhi vigili (e dalla tecnologia) dei genitori. Un altro può essere andare e venire autonomamente da scuola, senza cellulari, esplorando il proprio paese o il proprio quartiere. Si corrono piccoli rischi, certo, ma senza qualche piccolo rischio nessun viaggio, nessun esercizio vero della propria libertà è possibile.
Marco Erba è insegnante e scrittore
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