Dallo Stato sociale allo Stato di guerra? No all'illusione bellica
di Diego Motta
Varrebbe la pena ascoltare i racconti di chi opera negli scenari di guerra per far tacere le armi. In questi giorni abbiamo visto in Italia lenzuola bianche esposte ai balconi per le vittime...

La corsa al riarmo dell’Europa sembra essere ineluttabile, ma più che i propositi bellicosi in questa fase preoccupano le parole d’ordine. Non che i fatti delle ultime ore, messi in fila, non appaiano preoccupanti: solo ieri il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, ha spiegato la decisione di Berlino di togliere limitazioni alla gittata delle armi vendute all’Ucraina come un allineamento del suo Paese alle scelte di altri partner europei, proprio mentre il Consiglio Ue dava il via libera al primo grande programma di investimento militare comunitario, il cosiddetto programma Safe, pari a 150 miliardi e destinato agli Stati membri che intendono rafforzare le proprie capacità in settori come la difesa missilistica e i droni.
Progetti e risorse destinate a cambiare per sempre l’economia del Vecchio continente. Davvero ci stiamo preparando ad abbandonare l’epoca gloriosa del welfare state per passare al warfare state? Dallo stato sociale a uno stato di guerra? Come ha ribadito ieri il presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi, nella sua Introduzione ai lavori del Consiglio permanente, «non possiamo non ribadire che la produzione industriale che vuole riconvertire in armi alcune delle aziende in crisi non fa bene né alla nostra economia né al mondo». Ma che ne pensano, in tutto questo, le opinioni pubbliche del vecchio Occidente?
Dell’interrogativo si è fatto curiosamente portavoce due giorni fa il segretario generale della Nato, Mark Rutte, parlando a Dayton, negli Stati Uniti. «So che i dibattiti sugli investimenti nella difesa saranno difficili in alcuni parlamenti – ha detto ai rappresentanti dei diversi Stati dell’Alleanza atlantica –. Ho bisogno del vostro aiuto nel costruire il sostegno per l’approvazione dei bilanci».
Parole che rivelano la consapevolezza che l’incremento dei tetti di spesa militare rimane un’operazione altamente impopolare, come confermano diversi sondaggi, e che contemporaneamente tradiscono l’urgenza di invertire la rotta, spinti anche dal pressing dei grandi gruppi del comparto. Non si vede come una moral suasion generalizzata portata avanti da chi si è intestato progetti sin qui velleitari, possa riuscire alla fine a convincere le riluttanti democrazie europee a cambiare idea, a questo punto.
L’insensata cavalcata bellica pare essere una strategia decisa a tavolino dalle cancellerie e dai palazzi del potere e il paradosso è che ciò sta avvenendo nel momento di maggior fulgore dell’avanzata populista. Proprio adesso che i leader si fanno vanto di interpretare gli stati d’animo genuini dei loro popoli, si avverte ancor più nettamente lo strappo tra le élite e la base che si voleva ricomporre. L’orrore per quanto sta avvenendo a Gaza e lo stato di assuefazione per la guerra in Ucraina, di cui ancora non si vede la fine, hanno avuto l’effetto di ricompattare tante persone di buona volontà cresciute in tempo di pace, ostili per formazione e per cultura ai nuovi slogan.
Ascoltare ancora una volta la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ribadire che «tempi eccezionali richiedono misure eccezionali» e che ormai reagire all’offensiva del nemico è «questione di prontezza» (anche industriale) continua a fare un certo effetto. Pacifisti, pacificatori, non violenti, laici, cattolici, sacerdoti e operatori umanitari, tanta gente comune vorrebbe invece che le parole venissero pesate con più attenzione.
È inutile applaudire all’invito alla «pace disarmata e disarmante» di Papa Leone XIV se poi si procede in direzione contraria.
Varrebbe forse la pena ascoltare i racconti di chi opera negli scenari di guerra per far tacere le armi. In questi giorni abbiamo visto in Italia lenzuola bianche esposte ai balconi per le vittime della Striscia, abbiamo assistito ai digiuni di solidarietà attuati dai sindaci, abbiamo raccolto proposte su ponti umanitari necessari a salvare i superstiti delle bombe in Medioriente. Ecco: sono questi segnali di ribellione civile, composta ma dignitosa, i pilastri su cui costruire una nuova architettura di pace. Nulla, per fortuna, è ancora perduto.
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