Sos “edupsicopenia” tra i bambini: che cos'è e come si cura
Soli, fragili, schiacciati da povertà materiali ed emotive che si intrecciano fino a diventare una sola condizione di disagio: viaggio nelle scuole di Milano con psicologi e operatori del Ciai

Un bambino di quinta elementare che trascorre tutto il tempo possibile a scuola, dopo le lezioni, approfittando di attività extrascolastiche per non tornare a casa, dove resterebbe da solo fino al ritorno dei genitori alle 23, dopo i turni di lavoro. Una ragazzina di prima media che si isola, piange spesso in bagno o in un angolo della classe, per i suoi insuccessi scolastici, per la mancanza di fiducia nelle sue capacità. E ancora: un fratello e una sorella che vorrebbero restare sempre a scuola invece di tornare nel loro piccolo appartamento sovraffollato perché condiviso con molti componenti della famiglia; oppure un bambino di seconda media, aggressivo e senza alcun interesse verso il mondo esterno. Queste storie, seppur anonime, sono reali e riguardano bambine e bambini che vivono e frequentano scuole elementari e medie in due quartieri a Milano sud; gran parte di loro sono stranieri, provenienti da famiglie vulnerabili, ma è ormai stato constatato che con povertà educativa e malessere psicologico convivono anche studenti e studentesse italiane. Comune denominatore: fragilità emotiva, sfiducia nei propri talenti, povertà materiale e culturale della famiglia e del contesto di riferimento, mancanza di prospettive. E ancora una volta è la scuola a cercare di intercettare queste situazioni e lanciare un segnale. «Vorremmo soprattutto affrontare e gestire positivamente tutte le situazioni critiche, ma è pressoché impossibile, data la crescita esponenziale di questi casi - dice Elena Massironi vicepreside del plesso IC Palmieri di Milano, 900 tra studenti e studentesse dai 3 ai 13anni - . Lavoro qui da 36 anni, sono orgogliosa di questo istituto ma è una scuola di frontiera in cui molti alunni necessitano di sostegno; oltre la metà di loro convive con la povertà educativa già alla primaria, il 40% alla secondaria. Negli anni ho visto aumentare questi casi così come le situazioni di grave disagio psicologico di alunni e alunne». Quando parla dei suoi studenti e studentesse Massironi è entusiasta ma punta l’accento sulla loro fragilità prima ancora che sul loro percorso scolastico: «Dobbiamo stare attenti a certi segnali: spesso dietro un insuccesso scolastico o un atteggiamento irruento c’è dell’altro». Per far fronte a realtà così complesse, ormai da tempo le scuole, quando possibile, lavorano in sinergia con enti del terzo settore che forniscono servizi di supporto anche alle famiglie, e con i Servizi sociali territoriali.
Povertà educativa e malessere giovanile, due facce della stessa medaglia, rappresentano un’emergenza silenziosa fino a quando alcune situazioni non degenerano. L’attenzione dei media su preadolescenti e adolescenti spesso si concentra su numeri e casi eclatanti che, per quanto rilevanti per analizzare e comprendere il fenomeno, non sempre spiegano il come e il perché. «La povertà economica si riflette inevitabilmente sulla povertà educativa. Se in una famiglia mancano le risorse, i ragazzi non hanno accesso a esperienze culturali, sportive e ricreative. Ciò li rende più vulnerabili a un disagio che, troppo spesso, viene ignorato o sottovalutato» spiega Paola Cristoferi, responsabile del Programma Italia del Ciai, il Centro italiano aiuti all’infanzia che a Palermo, Bari e Milano ha attivato presìdi educativi nelle scuole per bambine e bambini tra i 7-13 anni di età a rischio di abbandono scolastico, appartenenti a famiglie fragili non in grado di offrire un adeguato supporto educativo a casa. La presenza di équipe multidisciplinari di operatori sociali, educatori, psicologi fa sì che questi spazi non siano da intendere come tradizionali doposcuola ma punti di riferimento educativi per studenti e famiglie, sostenute nella genitorialità. Secondo l’adagio per cui se non si nominano le cose, non esistono, “edupsicopenia” è il nuovo termine coniato da Ciai per descrivere e affrontare un fenomeno osservato da una diversa prospettiva. Senza voler patologizzare, «tante bambini e tanti bambini o adolescenti manifestano un unico stato di deprivazione che colpisce simultaneamente le risorse educative e il benessere psicoemotivo - aggiunge Cristoferi -: nei presìdi educativi osserviamo come queste due forme di disagio si intrecciano o si contaminano». Alessandra Santona, professoressa di Psicologia dinamica all’Università di Milano Bicocca, spiega le ragioni di una definizione di questo tipo. «La letteratura scientifica e clinica ha messo in evidenza che esiste una associazione significativa tra la povertà educativa e disagio psicologico giovanile - commenta - . Una meta-analisi del 2023 ha evidenziato che i giovani e le giovani provenienti da contesti di povertà educativa mostrano livelli significativamente più elevati di disagio psicologico, tra cui ansia, depressione, bassa autostima e sentimenti di isolamento. Alcuni fattori invece moderano la presenza di un rischio di disagio: il supporto familiare, il livello di istruzione dei genitori e le risorse comunitarie. D’altro canto il rapporto di ISTAT del 2022 mostra che circa il 18% dei bambini e adolescenti italiani vive in condizioni di deprivazione educativa, con significative differenze tra Nord e Sud del Paese».
Che fare, dunque? Lavorare in rete con tutte le agenzie educative (scuola, Servizi, enti del terzo settore, famiglie), «porsi con uno sguardo integrato, costruire interventi mirati alla natura bidimensionale dell’edupsicopenia, proprio per capire come e perché si generano queste situazioni». L’obiettivo finale è spezzare il ciclo delle disuguaglianze, creare una comunità più coesa di bambini e bambine capaci di esprimere il loro potenziale e contribuire in futuro alla società, ridurre il rischio di futuri neet (cioè di giovani che non studiano, non lavorano e non seguono corsi di formazione) e i costi sociali delle stesse diseguaglianze. «Per fortuna esistono i presìdi di Ciai anche nel nostro plesso - continua la vicepreside Massironi - : i bambini che li frequentano sono entusiasti di trascorrere qui gran parte del pomeriggio e anche le famiglie sono più serene sapendo che i figli si trovano in un luogo sicuro. Lo scorso anno scolastico un gruppetto di ragazzini di origine filippina ha frequentato assiduamente tutte le attività, uscite, laboratori e ha voluto proseguire anche con i campus estivi, sempre condotti dalle équipe di Ciai». Aurora Giannazza, educatrice dei presìdi educativi a Milano, entra in relazione quotidiana con bambine e bambini e con le famiglie che, malgrado le barriere linguistiche e culturali, sono disponibile a chiedere aiuto. «Molte situazioni sono complesse, richiedono investimento e tempi lunghi - dice -: è importante osservare con occhio attento prima che questi minori finiscano in strada, con comportamenti di devianza e bullismo. L’ approccio di dialogo con le altre associazioni e i servizi sul territorio ripaga: ad esempio il caso della ragazzina che si isolava e piangeva è stato affrontato positivamente anche insieme alla mamma, grazie a una rete di sostegno tra noi, gli insegnanti, una pedagogista e psicologa».
La povertà educativa in Italia ha un costo anche economico oltre che sociale: se si colmassero i divari educativi, il ritorno economico calcolato ammonterebbe a 48 miliardi di euro di Pil aggiuntivi, pari al 2% della ricchezza nazionale (studio The European House – Ambrosetti Teha). Oltre 1,3 milioni di minori vivono oggi in condizioni di povertà assoluta; un giovane su dieci abbandona prematuramente gli studi e l’Italia registra uno dei tassi più alti d’Europa di Neet: 1,4 milioni, pari al 15,2% dei giovani tra i 15 e i 29 anni, contro l’11% della media Ue e il 9% fissato come target europeo al 2030. Gli abbandoni in Italia sono oggi all’8,3%, dato però che non considera molti altri fattori (assenze scolastiche, dispersione implicita, competenze etc). Il fenomeno dell'edupsicopenia identificato da Ciai lancia una sfida anche alle istituzioni. «Occorre, innanzitutto che la politica riconosca e identifichi il problema - conclude Paolo Limonta, presidente di Ciai -. Organizzazioni del privato sociale come la nostra possono svolgere un ruolo di supporto alle istituzioni nazionali e locali che devono destinare più risorse a questi interventi».
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