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«Gli adolescenti italiani non sono indifferenti: la loro richiesta di partecipare va presa sul serio». E per accogliere questa domanda occorre anzitutto decostruire una serie di pregiudizi radicati che serpeggiano nell’opinione pubblica e non solo: «Nel caso delle indagini sugli adolescenti e più in generale sui giovani si avverte, innanzitutto, la necessità di superare la postura tipica di quanti, non solo nel campo della ricerca e in quello educativo, li ritengono meritevoli di particolare attenzione perché li proiettano immediatamente nel futuro che a loro toccherà costruire e vivere. Il primo ostacolo da superare è, quindi, lo sguardo adultocentrico, che tende a riconoscere come pieno, maturo, consolidato solo ciò che accade nella vita adulta, mentre quello che viene prima costituirebbe una fase di allenamento e preparazione, un deficit originario da colmare. C’è, invece, un presente dell’adolescenza che ha valore in sé. Per indagarlo occorre parlare con gli adolescenti e riconoscere loro uno spazio nella ricerca sociale». È il punto di partenza da cui muovono la professoressa Sabina Licursi e la ricercatrice Emanuela Pascuzzi, entrambe sociologhe e docenti all’Università della Calabria, nel volume “Prendere parte. Adolescenti e vita pubblica”, edito da Donzelli.
Altri preconcetti da sfatare? «Le famiglie e gli insegnanti sono posti sul banco degli imputati e i più giovani sono considerati ora vittime di un mondo adulto che sembra aver perso la bussola ora corresponsabili di questo disorientamento. Sarebbero loro, infatti, ad adottare un diffuso atteggiamento di indifferenza e disinteresse verso le questioni che riguardano la vita degli altri, annebbiati dal continuo utilizzo di dispositivi digitali e dagli stimoli di un mercato che li tratta come consumatori compulsivi, facilmente oggetto e/o attori di situazioni di bullismo o violenza. Incapaci, insomma, di opporre resistenza e farsi portatori di nuove vie. Ripiegati su se stessi».
Le autrici, invece, hanno sposato un diverso approccio: quello di porsi «di fronte agli adolescenti, in modo da intercettare il loro sguardo, le loro parole, gli atteggiamenti e le pratiche. L’intento è quello di prestare attenzione al loro punto di vista e considerarli nella loro specifica fase di vita come persone coinvolte quotidianamente, con minore o maggiore intensità e consapevolezza».
Tuttavia le studiose non hanno sottovalutato «l’esistenza di estese zone di disagio e malessere adolescenziale», ma hanno scelto di «adottare lenti che riescano a mettere a fuoco l’interesse dei più giovani a discutere delle possibilità concrete di cambiamento, soprattutto se incoraggiati dall’allestimento di occasioni per farlo, e la loro aspirazione a prender parte alle decisioni pubbliche da cui sono toccati. Gli adolescenti coinvolti nella ricerca sono stati intervistati, hanno partecipato a incontri di discussione e si sono confrontati su questioni che li riguardano direttamente». La ricerca – che ha coinvolto oltre 1.300 adolescenti fra i 14 e i 17 anni – è stata realizzata in larga parte durante la pandemia nell’ambito del progetto “Ripartire. Rigenerare la partecipazione per innovare la rete educante”, coordinato da ActionAid Italia e finanziato dall’impresa sociale Con i Bambini per il contrasto alla povertà educativa, realizzato nelle città di Pordenone, Ancona, L’Aquila, Trebisacce (Cosenza) e nel Municipio VI a est di Roma (che conta circa 250 mila abitanti).
«Si sottovalutano gli adolescenti... Si pensa che siano nullafacenti, quindi persone non interessate al proprio futuro, al proprio presente, a mettersi in gioco e anche ad approfondire tematiche di loro interesse», dice un ragazzo de L’Aquila. Gli fa eco un coetaneo di Ancona: «In verità tutti i giorni combattiamo per quello che dovrebbe essere il nostro futuro, per quelli che sono i nostri diritti. Poi, a volte, non ci danno la possibilità di esprimere la nostra opinione, ma anche nelle conversazioni più piccole, esprimendo quello che pensiamo, diamo un contributo alla società». Infatti, i ragazzi interpellati dalla ricerca – sintetizzano le sociologhe – «vorrebbero essere “presi sul serio” dagli adulti che frequentano abitualmente, genitori e insegnanti soprattutto».
Se «il timore del giudizio degli altri, l’insicurezza nella comunicazione verbale, la scarsa abitudine al confronto ostacolano la loro partecipazione», anzitutto dalla famiglia di origine «si sentono sostenuti, incoraggiati e supportati nella frequentazione del mondo, nell’attenzione da prestare a sé stessi, agli altri e alle situazioni che si presentano, con sensibilità e prudenza». Per gli adolescenti, «le cose del mondo diventano interessanti quanto più sono discusse con i propri amici e coetanei. Dopo le madri e i padri, è a loro che assegnano il peso più importante nel loro apprendistato sociale». Anche se in misura più contenuta, «contribuiscono alla socializzazione alla vita pubblica figure educative non appartenenti alla cerchia familiare o amicale: allenatori sportivi, educatori in contesti associativi, catechisti e altri adulti significativi».
L’educazione alla cittadinanza «è un compito assegnato prioritariamente alla scuola. È dagli insegnanti che gli adolescenti si aspettano di ricevere informazioni e formazione per decifrare il mondo attuale e non solo del passato, di apprendere conoscenze e abilità per esprimere la propria voce e contribuire alla società. Ed è la scuola il principale contesto che vorrebbero cambiare con le loro proposte». Inoltre i teenager sono sensibili «verso questioni sociali come l’ambiente, le migrazioni, le discriminazioni di genere, spesso oggetto di dibattito pubblico, e sono emotivamente sollecitati da ciò che avviene nella realtà in cui vivono. Benché molti temi non siano parte del loro vissuto personale, esprimono una vicinanza empatica alle sofferenze altrui. Partecipare a discussioni sui social network e utilizzare l’identità social per condividere un’opinione sono le modalità utilizzate più di frequente e con maggiore intensità nello spazio dell’impegno civico».
In conclusione, chiedono «di essere riconosciuti dagli adulti per la loro capacità di stare nel mondo come agenti. A questa richiesta, però, si affianca quella di non essere lasciati soli di fronte a ciò che è meno familiare, meno a misura della loro esperienza diretta». Secondo loro, «occorre sostenere lo “stare insieme”. Manifestano l’esigenza di luoghi che li accolgano e contengano. Non spazi virtuali, ma reali. Spazi da reinventare, abitare. Per gli adolescenti i contatti e le interazioni online non sono sufficienti». Le «competenze sociali e civiche», fondamentali per la partecipazione alla vita pubblica, «devono essere praticate per essere apprese. È forte la domanda di cose concrete, nella vita presente. Oltre le nozioni, le azioni. Oltre gli edifici chiusi, un territorio da abitare, non solo da attraversare o “consumare”, di cui sentirsi parte, prendersi cura».