Oss di quartiere, custodi sociali, sentinelle nei condomini: non chiamateci vecchi
Da Torino a Rimini, la mappa dei progetti e delle esperienze in cui gli anziani non sono problema, ma risorsa per le comunità. E se dovessimo stravolgere il punto di vista culturale su di loro per aprire la strada a un modo diverso di invecchiare?

Sempre più vecchia, l'Italia, e va bene. Ma questa vecchia Italia, nelle preoccupazioni degli esperti e delle istituzioni anche molto onerosa per via delle sue fragilità e dei suoi bisogni, non smette di prendersi cura. Dei figli, dei nipoti, dei vicini di casa, degli amici di sempre o degli sconosciuti incontrati per caso. Un Paese di donne e uomini che hanno superato i sessantacinque anni e che, invece di tirarsi indietro, restano nel cuore vivo delle relazioni quotidiane, con una disponibilità che spesso supplisce alle carenze di servizi e reti formali. Di questo patrimonio umano e sociale enorme, non così spesso raccontato, s'è occupata di recente l'indagine “Passi d’argento” coordinata dall’Istituto superiore di sanità, offrendone una specie di mappa: quasi un terzo degli over 65 tanto per dire, cioè il 29%, rappresenta una risorsa attiva per la famiglia o la comunità. Il 17% si prende cura di congiunti, il 15% di familiari o amici con cui non vive e il 6% partecipa ad attività di volontariato. Questa capacità e volontà di essere risorsa è una prerogativa femminile (32% fra le donne contro il 25% negli uomini), si riduce con l’avanzare dell’età (coinvolge il 36% dei 65-74enni ma solo il 14% degli ultra 85enni) ed è minore fra le persone con basso livello di istruzione (21% fra chi ha al più la licenza elementare contro il 38% dei laureati) e tra chi ha difficoltà economiche (24% fra chi ne ha molte contro il 32% di chi non ne ha). Ma tant'è, la terza età è una risorsa, e non solo come destinataria di assistenza: a dimostrarlo ci sono tante esperienze in tutta Italia e qualcuna vogliamo raccontarvela.
A Torino è stato realizzato il progetto “Ci vediamo: un quartiere amico degli anziani”, con uno spazio al piano di uno stabile destinato a un condominio solidale, in cui è stato avviato un nuovo servizio per la popolazione anziana del territorio, individuando, formando e supportando persone disponibili a raccogliere i bisogni espressi dagli anziani (le “Sentinelle”: esercenti, medici di base, vicini di casa, altri anziani, volontari ecc.), oltre a valorizzare le risorse personali degli anziani stessi, invitati a mettere in comune le proprie competenze in una logica di mutuo aiuto. A Bergamo, invece, un altro progetto ha previsto la presenza nel quartiere di operatori (Asa-Oss) chiamati “Custodi sociali”, punti di riferimento per anziani e non solo, coadiuvati da volontari come “sentinelle” di quartiere che s’impegnano a monitorare e segnalare i bisogni dei più fragili nei condomini e nei palazzi. A Rimini sono operativi gli Oss di quartiere, servizio di prossimità attivo da due anni rivolto a persone anziane e con disabilità: ogni anno raggiunge una media di 145 utenti di cui 125 anziani, con una media di 90 ore di servizio per ciascuno, riferisce il Comune che promuove il progetto. «L’obiettivo è duplice: favorire la permanenza al domicilio e contrastare l’isolamento sociale, offrendo un sostegno concreto e relazioni significative. Per gli anziani, il servizio si rivolge in particolare a chi vive solo o non può contare su una rete familiare di riferimento. Gli Oss accompagnano gli utenti in auto per recarsi a supermercati, farmacie, ambulatori medici e luoghi di socialità», spiega il Comune riminese. Ma c’è un risvolto significativo: «Il progetto ha favorito anche la nascita di alcuni gruppi attivi di anziani, come nel quartiere Colonnella dove alcune signore si ritrovano regolarmente tutti i giovedì pomeriggio, a turno presso le loro abitazioni, partecipando anche a passeggiate o a momenti conviviali. Un esempio concreto di come persone prima isolate abbiano ritrovato relazioni grazie all’intervento degli Oss di quartiere».
Iniziative di questo genere dovrebbero essere moltiplicate «in azioni di sistema a carattere nazionale per promuovere una società inclusiva e sostenibile. Tutto ciò richiede un impegno coordinato a diversi livelli, la definizione di programmi e progettualità che includano interventi di coordinamento con il territorio, monitoraggio, verifica e valutazione, formazione e sviluppo continuo, costruzione di reti efficaci e sostenibilità a lungo termine, al di là degli indispensabili sostegni economici e sanitari», auspica la pedagogista torinese Luisa Piarulli, docente presso l’Università Cattolica di Milano, lo IusTO Rebaudengo e l’Università di Torino, autrice del volume Il talento di vivere la vecchiaia. Pedagogia per un nuovo umanesimo esistenziale (Neos edizioni), un saggio che propone di riconoscere, vivere e sostenere l’anzianità come una preziosa fase esistenziale. «La vecchiaia non è una mera fase della vita in cui si verifica un declino fisico e mentale, ma parte integrante di ciascuno di noi, testimonianza di una biografia individuale e sociale, specchio di ogni esistenza, l’identità dell’umanità stessa in cui riflettersi», sostiene la professoressa, che promuove una vera e propria “pedagogia dell’invecchiamento”: un dispositivo da riabilitare, se non si vuole deumanizzare del tutto il nostro tempo. «O saremo capaci di dare nuovo valore e altra interpretazione alla vecchiaia, oppure la società, soprattutto quella occidentale, sarà privata della dimensione etica che sola può garantire la sopravvivenza dell’umanesimo: al decadimento del singolo sarà proporzionale quello sociale».
Finora la letteratura pedagogico-scientifica si è concentrata prevalentemente su infanzia, adolescenza, genitorialità e adultità, mentre la vecchiaia è stata trattata soprattutto in ambito medico-sanitario o economico, raramente in quello pedagogico. «Forse la vecchiaia, con tutte le sue sfaccettature, suscita timore? Certamente è la fase della vita che ci spinge a interrogarci sul significato ultimo dell’esistenza umana, a cercare una verità rassicurante riguardo al nostro destino, a confrontarci con la dimensione trascendente e la finitudine che ci caratterizzano. Quando non basta la scienza ci si affida alla fede, o alla fede dell’ateismo o allo scientismo, anche se non sempre i risultati soddisfano né rassicurano», osserva Piarulli. Per contrastare questa narrazione stereotipata, emergenziale, economica e clinica, la studiosa deplora l’ageismo — la discriminazione nei confronti degli anziani — e ricorda come «la questione della vecchiaia, soprattutto quella delle donne, sia stata oggetto di stigma e pregiudizio sin dall’alba dell’umanità. L’essere umano si è impegnato oltremodo per rifuggirla, eluderla, allontanarla dalla vista, perché considerata una fase indegna, macabra, se non ripugnante della vita». Al contrario, la professoressa propone una pedagogia dell’invecchiamento «libera dall’esclusivo paradigma clinico, per aprire la strada a un’arte del vivere e dell’invecchiare con talento». Cita esperienze come le scuole dell’infanzia e gli asili nido annessi, in alcune regioni, alle case di riposo: a Piacenza, per esempio, il progetto “Abi, Anziani e bambini insieme”. «Nelle scuole primarie, il coinvolgimento attivo degli anziani stimola e motiva gli alunni allo studio della storia e permette di acquisire il senso degli accadimenti che si succedono nel tempo, comprendere i contesti di vita di ieri e di oggi e immaginare nuovi disegni di futuro: è un viaggio verso la costruzione della propria identità», sottolinea Piarulli, che sogna l’apertura di “sportelli d’ascolto pedagogico itineranti”, a domicilio e nelle strutture per anziani. Inoltre, incoraggia l’utilizzo delle scienze e degli ambiti di ricerca specifici come la geragogia (la scienza pedagogica che ha come obiettivo l’educazione permanente degli anziani) e la gerontologia, sottolineando l’urgenza del passaggio da una visione medico-assistenziale a quella pedagogica della “cura”. «Dato il carattere di interdisciplinarità della pedagogia, si rende necessaria una sinergia comunicativa, scientifica e prassica con le altre scienze e con le politiche sociali, per considerare la vecchiaia un fatto principalmente culturale e non solo biologico», conclude.
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