La solitudine di un figlio: quando dobbiamo preoccuparci?

Le conversazioni con un chatbot, il rischio hikikomori, ma anche la fatica di insegnare il valore dell'amicizia. Tutte le risposte che cerchi
November 7, 2025
Un giovane solo
Un giovane solo

La solitudine di un adolescente che parla con uno chatbot. Dobbiamo preoccuparci?

Sì, ma prima di preoccuparci cerchiamo di capire. Sarebbe comodo minimizzare e considerare l’eventualità talmente remota da non toccare direttamente la nostra vita familiare. Invece, come sempre, è opportuno verificare, parlare, interrogarsi. Le evidenze purtroppo non sono tali da rassicurarci. Sappiamo che negli ultimi mesi si sono moltiplicati i casi di rapporti a rischio tra adolescenti e intelligenza artificiale. Sappiamo che è giusto fermarci a riflettere sull’utilizzo che i nostri figli fanno di queste risorse. Sappiamo che gli esperti non si stancano di lanciare allarmi sulla confusione tra reale e virtuale. Il problema, insomma, è tutt’altro che banale se, nel mese di agosto, anche il congresso americano di psicologia ha messo al centro del dibattito proprio questo tema.
Ma qui arrivano i problemi. Su cosa fare in concreto neppure gli esperti sono d’accordo. Protocolli veri e propri non ce ne sono ancora, ma ci sono linee condivise di intervento su cui lavorare, a partire dalle conoscenze che abbiamo. Poche, ma vale la pena metterle in fila. Sappiamo che la distinzione tra reale e virtuale, per noi adulti molto evidente, è più sfumata per i ragazzi che considerano il web qualcosa di assolutamente reale, in quanto interseca da vicino la maggior parte delle loro esperienze. Sappiamo anche che per affrontare questo tema serva una visione equilibrata. Sbagliato demonizzare e altrettanto sbagliato considerare tutto in modo positivo. Il mondo dell’intelligenza artificiale va avvicinato con prudenza, nella consapevolezza che non si tratta di una realtà da respingere a priori, ma da approfondire e verificare, con l’obiettivo di creare uno spazio di dialogo da condividere e da discutere insieme ai nostri figli. Ma per condividere e discutere occorre conoscere. E questo è lo sforzo richiesto a noi genitori. Per approvare o per respingere, quindi per farsi un’opinione ragionevole, occorre fare lo sforzo di approfondire le dinamiche di un mondo che cresce e si sviluppa più in fretta dei nostri tentativi di capirlo. Nel frattempo non bisogna abbandonare lo sforzo di ascoltare, di raccogliere informazioni e mettere a confronto pareri ed opinioni.
Che fare quindi quando pensiamo che nostro figlio adolescente stia sviluppando un rapporto con lo chatbot che va oltre la consultazione e la ricerca di dati per sconfinare in una vicinanza confidenziale se non “affettiva”? Facile dirgli che i suggerimenti della IA non possono mai essere consigli da ascoltare in maniera acritica. Facile metterlo in guardia dall’affidarsi in modo esclusivo a una realtà che, per quanto bene addestrata a ripetere indicazioni verosimili, non può provare emozioni e non ha un interesse autentico per il suo interlocutore. Ma mettere in guardia non basta. Forse dovremmo anche domandarci da dove nasce una solitudine così profonda da spingere nostro figlio a eleggere l’IA come suo riferimento principale. E forse anche riconoscere la nostra responsabilità – nostra a livello individuale e collettivo – per aver costruito e alimentato una società in cui, con il mito di una connessione permanente, ci stiamo illudendo di essere sempre in contatto con tutto e tutti. La realtà, come sappiamo, è ben diversa perché troppo spesso anche noi adulti finiamo per essere affacciati su baratri di solitudine spaventosi. E cosa possiamo fare per sfuggire a questo esito che fa stare male noi e i nostri figli? In fondo, a pensarci bene, il rapporto (talvolta) malato tra adolescenti e IA è lo specchio un po’ deformato e molto preoccupante delle tante solitudini che affliggono la nostra epoca, piccoli o grandi tarli che lavorano nell’inconscio delle nostre vite, a tutte le età, in ogni condizione sociale.
Questione enorme che vogliamo affrontare senza alcuna pretesa di essere esaustivi. Solo pochi appunti, per capire cosa sta succedendo nelle nostre famiglie e cosa possiamo fare, o almeno tentare, per difenderci da questo clima malato che spezza o almeno incrina le relazioni, piega la volontà, oscura il futuro.

Come faccio ad evitare che mio figlio diventi un “hikikomori”?

È vero, la parola e quello che si porta dietro ci fa un po’ paura. Quando parliamo di solitudine degli adolescenti l’immagine più forte e più disorientante è proprio quella degli hikikomori, simbolo di un rifiuto sociale che pesa sulle spalle di un’intera generazione. Come più volte scritto, anche sulle nostre pagine, si tratta di un fenomeno evidenziato in Giappone oltre cinquant’anni fa ma che ha ormai investito tutto l’Occidente iper-digitalizzato. Da noi gli hikikomori, ragazzi che hanno scelto il ritiro sociale, pur con diverse gradualità di isolamento, sarebbero oltre 200mila, anche se, in assenza di dati ufficiali, esistono soltanto stime. Le associazioni che si occupano di questo gravissimo allarme ci dicono che le vittime sono soprattutto maschi e che il problema comincia intorno ai 15 anni. Se la tentazione all’isolamento, che porta il ragazzo ad escludere via via ogni interlocutore tranne i vari device digitali, viene sottovalutata e se non si interviene subito c’è il rischio che la situazione si incancrenisca e che prosegua per anni, con esiti psicologici pesanti. Le motivazioni di questa solitudine volontaria e patologica variano da caso a caso ma, per la maggior parte delle situazioni, sono da rintracciare in due grandi filoni. Le scelte educative dei genitori (permissivismo ad oltranza e, all’opposto, iper controllo con grado elevato di aspettative) e le esperienze negative con il gruppo dei pari (episodi di bullismo, difficoltà relazionali, delusioni profonde che il ragazzo sceglie di interiorizzare senza parlarne in famiglia). Sono situazioni “limite”, certamente, ma in qualche modo – pur senza sconfinare nella patologia - la maggior parte dei nostri adolescenti viene contagiata più o meno profondamente da questo virus. La confusione tra virtuale e reale, a cui abbiamo già accennato, rischia spesso di spingere i ragazzi a considerare web e social come i riferimenti relazionali più immediati, in qualche modo più agevoli e più attrattivi. Un rischio che, se non è bilanciato dalla presenza consapevole e costante dei genitori, può diventare concreto e sfociare in abitudini che incidono sul loro equilibrio psico-fisico. Ma, come sappiamo, non è mai facile verificare, controllare, rendersi conto passo dopo passo di tutto quello che fanno i nostri figli adolescenti e, forse, non è neppure giusto (la sindrome dell’iper controllo, come detto, può avere esiti altrettanto gravi). L’educazione digitale può essere un argine alla deriva della solitudine adolescenziale in tutte le sue declinazioni? In buona parte sì, a patto che accanto alle norme tecniche trovino spazio, raccontate con parole giuste e slancio interiore, motivazioni di ordine etico. Insomma, se non si inserisce il digitale nella più ampia sfera dell’umano, si rischia di presentare un mondo a compartimenti stagni, dove ogni ambito di vita ha i suoi codici e i suoi parametri separati l’uno dall’altro. Proprio quella rappresentazione della realtà fredda e utilitaristica che oggi i nostri ragazzi rifiutano, tentando di isolarsi e rifugiandosi nella solitudine.

Quanto è importante educare al valore dell’amicizia?

Importantissimo, naturalmente. Ma non dobbiamo cadere nel rischio di facili equazioni. Più amici uguale meno possibilità di cadere nella spirale nell’isolamento digitale. Non è proprio così. Altrimenti sarebbe facile pensare che chi ha migliaia di “amici” sui social deve considerarsi al riparo da ogni pericolo. Parlando di amicizia occorre fare subito chiarezza sul significato di questa parola, lontanissima dal concetto radicato nei nostri ragazzi. Gli “amici” non sono i contatti, migliaia di persone di cui nella maggior parte dei casi non sappiamo nulla. Gli amici autentici sono pochi perché è la radice stessa della parola che rimanda al termine “amare” - cioè volere il bene, desiderare il bene di qualcuno in modo specifico - che ci apre alla comprensione del suo significato. Per desiderare il bene in modo concreto, non come una facile astrazione, si deve conoscere da vicino quella persona, scoprire piano piano quello che ha dentro, verificare se davvero ci troviamo bene con lui o con lei. Lo possiamo fare in modo autentico e non superficiale solo con poche, pochissime persone. Ecco perché la scoperta dell’amicizia, quella autentica, può essere per i nostri ragazzi un momento educativo prezioso. L’amicizia è la strada per mettere da parte qualsiasi rischio di condividere il pensiero e i gesti del bullismo, quello “dal vivo” e quello virtuale, e comprendere il valore del rispetto reciproco. Permette loro di superare egoismi, prevaricazioni, arrangiamenti, piccole furbizie per avvicinarsi al concetto di “farsi prossimo”. Cosa vuol dire? Un amico autentico, un’amica autentica, è quello/a con cui scopri la bellezza della vicinanza reciproca, dell’incoraggiamento, della confidenza, della sorpresa di vedersi e sentirsi simili. Con cui c’è la volontà di comprendersi anche quando la relazione diventa faticosa e servono nuove energie e ragioni sufficienti per proseguire oltre la ferita provocata dal distacco e dalla privazione. Ecco, se riusciremo a spiegare tutto questo in modo semplice ai nostri ragazzi, non li avremo certamente messi al riparo dall’arcipelago della solitudine, ma avremo donato loro qualche risorsa in più per evitarne le derive peggiori.

Ma anche i nonni sono sempre più spesso soli. Cosa si può fare?

Dalla parte opposta dell’universo generazionale c’è la solitudine degli anziani. Non è una questione trascurabile perché tocca da vicino la vita delle famiglie e interroga in prospettiva ciascuno di noi. Anche la solitudine degli anziani è una dei prodotti della nostra società malata che spinge all’isolamento le persone fragili e, nella maggior parte dei casi, non offre contrappesi di tipo sociale e relazionale. Ma, mentre gli adolescenti sono indotti all’isolamento da una serie di autodeterminazioni personali e dalla sensazione di non poter essere compresi dal mondo dei grandi, gli anziani ci sono costretti e, in troppi casi, finiscono per rassegnarvisi. Una certa sociologia dell’ovvio considera la solitudine come condizione comune nelle persone anziane che, se può portare a conseguenze negative per la salute fisica e mentale, dev’essere anche accettata per quello che è. Ma si tratta di una visione miope perché ignora che questa condizione è una novità del mondo postmoderno, visto che nel passato l’esperienza degli anziani era risorsa a cui nessuno intendeva rinunciare. Oggi, al contrario, la solitudine della terza età è diventata male sociale, tanto più vasto quanto più ampia diventerà quella fetta di popolazione che consideriamo anziana. Già oggi le persone oltre i 65 anni rappresentano un quarto della popolazione. Nel 2050 saranno oltre un terzo. Vogliamo condannare all’irrilevanza una fetta importante di popolazione? D’altra parte si tratta di un indicatore statistico che ci dice poco, sia perché oggi l’anzianità intesa come decadimento psico-fisico e cambiamento dei ruoli sociali è spostata molto più avanti, sia perché in questa fascia di popolazione sono presenti profili molto diversi. Persone che si sforzano di interpretare al meglio le indicazioni del cosiddetto invecchiamento attivo – alimentazione sana, attività sportive, interessi culturali, buone relazioni – e altre che per povertà sociale e culturale precipitano nella spirale della solitudine. Perché è importante riflettere sulla solitudine degli anziani? Perché quanto più una persona anziana si percepisce isolata, disconnessa, non supportata, tanto più il suo decadimento psico-fisico rischia di subire un’accelerazione potente. Quando poi alla sensazione soggettiva della solitudine si somma il dato oggettivo dell’isolamento sociale, il rischio per la persona diventa davvero grande e, secondo gli esperti, è pari ai danni del fumo o dell’obesità. La solitudine infatti apre la strada una maggior incidenza di disturbi cardiovascolari, diminuisce il funzionamento del sistema immunitario e aumenta la dipendenza funzionale – cresce cioè la sensazione di non riuscire ad essere autonomi - oltre che scatenare ansia, psicosi, depressione, quindi un minor benessere psicologico percepito. «Ma come faccio a non sentirmi sola? I miei nipotini di 7 e 5 anni, che prima abitavano due piani sotto al mio appartamento, ora mi sono trasferiti a oltre 300 chilometri di distanza per problemi di lavoro di mio genero, e riesco a vederli solo un paio di volte l’anno», mi diceva una nonna che dopo aver contribuito in modo importante alla crescita dei nipoti fino a quel momento, era rimasta improvvisamente “disoccupata”. A questa nonna potremmo dire di riavviare i contatti con amici e familiari che magari, durante gli anni intensi dedicati alla cura fuill-time dei nipotini, erano stati un po’ congelati. Anche una semplice telefonata, qualche messaggio – importantissima la capacità di orientarsi nel mondo digitale - possono servire ad alleviare il senso di solitudine. E, visto che la salute al momento regge, perché non impegnarsi in qualche attività di volontariato, non prestare il proprio contributo a realtà associative e di interazione sociale? Quanto bisogno c’è nelle comunità ecclesiali e nelle tante associazioni cattoliche di volontariato di persone disponibili, competenti, sagge e, soprattutto, con tanto tempo a disposizione? Tra le tante rivoluzioni culturali decise da papa Francesco la celebrazione della Giornata mondiale dei nonni e degli anziani è senza dubbio tra le più coraggiose. L’ultima Giornata, quella dello scorso luglio, aveva per titolo: “Beato chi non ha perduto la sua speranza”, parole tratte dal libro del Siracide. Ecco, riflettere su come la presenza dei nonni e degli anziani possa essere un segno di speranza all’interno delle famiglie e delle comunità ecclesiali all’insegna della vicinanza intergenerazionale, rappresenta davvero un segno di rottura fondamentale. Ora però servono segni concreti. Dopo la celebrazione serve la valorizzazione come buona prassi quotidiana, come cultura vissuta e partecipata in modo non occasionale.

Se in famiglia talvolta ci sentiamo isolati, cosa possiamo fare?

Si tratta di una preoccupazione tutt’altro che strana. Nessuno stupore. A tutte le famiglie è capitato, in un certo momento della vita, di avvertire qualche disagio da isolamento vero o presunto, di percepire un rischio di vuoto, un’assenza che non corrispondeva poi alla reale situazione familiare. Nulla di strano. Non ci sono famiglie migliori o famiglie peggiori, ma famiglie con un tasso di fragilità diverso e variabile. Anche in quelle che si sentono “a posto”, perché funzionali e rodate - ma non lo si è mai abbastanza per sentirsi “a posto” - può capitare di sperimentare una sensazione che s’affaccia e produce brutti pensieri, malessere interiore, paura. Il percorso della vita coniugale e genitoriale è – come ben sappiamo – denso di situazioni anche difficili, anche sgradevoli, che occorre affrontare e risolvere. Ogni problema, anche quello apparentemente più scontato, può rappresentare un momento ordinario di impegno e di confronto in cui si riescono a offrire rispose coerenti, oppure, quando questo non capita, si avverte di precipitare in un dramma da cui sembra impossibile uscire. E le domande, per ogni momento della vita familiare, potrebbero essere davvero infinite. Come siamo riusciti ad armonizzare le tante variegate, talvolta opposte sfumature di abitudini delle nostre famiglie di origine? Ci sono stati armonia e consenso in un quadro di scelta responsabile per programmare la nascita dei nostri figli? Come abbiamo affrontato la crisi dell’adolescenza? E il loro primo amore? E i nostri momenti di crisi? Quante circostanze ci hanno costretto a riflettere in profondità e quanti pensieri abbiamo preferito tenere dentro di noi, alimentando quindi, in molti casi, un senso di smarrimento e di solitudine.
Con le tante coppie conosciute e apprezzate nel mio impegno nella pastorale familiare si sono anche create solide amicizie. Un giorno telefona uno di questi amici. Persona squisita, colta, preparata, impegnatissima nella pastorale. Ma il tono della voce lascia intendere che questa volta non si tratta di un semplice saluto, né di una delle tante comunicazioni di servizio: «Mia moglie mi ha detto che se ne vuole andare. C’è un altro. Non mi ama più. Non so come fare, come dirlo ai nostri tre figli, a chi chiedere aiuto. Se la cosa venisse alla luce qui in paese perderemmo tutta la credibilità. Per anni siamo stati la famiglia perfetta, impegnata in parrocchia, con incarichi pastorali importanti anche a livello diocesano. E adesso?». Anch’io mi sono sentito perso, incapace di proporre qualcosa di ragionevole. Erano gli anni in cui le persone separate rappresentavano ancora un problema, tanto più se, come i nostri amici, avevano un incarico diocesano di rilievo. Con chi confidarsi? Come proporre qualcosa di sensato, rispettando tra l’altro la consegna della riservatezza? Insieme alla coppia di amici che stava vivendo quel dramma, ho sperimentato il senso profondo della solitudine che diventa impotenza. Ma il tradimento non è l’unica circostanza all’interno della coppia che induce lui o lei a chiudersi, interrompere le comunicazioni, rifugiarsi nello spazio angusto e estraniante della solitudine. Ciascuno di noi ha fatto certamente esperienza di quanto sia pesante avere nel cuore un pensiero, un episodio, una circostanza, un incontro importante che, per una serie di motivi – l’elenco potrebbe essere davvero infinito – appare opportuno non svelare a nessuno, neppure alle persone più care. Tenersi tutto dentro, anche quando le relazioni coniugali e familiari appaiono più che soddisfacenti, ci chiude nel cerchio della solitudine e può alimentare un profondo disagio psicologico. Che fare allora? Con chi confidarsi?

Oltre la solitudine, la speranza della fede e la forza delle relazioni

Quando dentro di noi si allarga la consapevolezza di una solitudine così vasta e opprimente da non potercela fare da soli, ma non desideriamo aprire il cuore a un’altra persona, neppure a nostra moglie, a nostro marito, neppure al migliore amico perché non vogliamo caricare altri di un fardello così pesante da apparire senza soluzioni, si apre lo spazio della fede e della preghiera. Tutto risolto? Naturalmente no, la fede non è una formula magica che azzera ogni problema. Anzi talvolta è difficile conciliare la sofferenza con l’idea di una fede che conforta perché trasmette l’idea di un Dio buono che vuole il bene delle sue creature. La teologia ci dice che il dolore è in qualche modo il prezzo della libertà e che se Dio, in virtù della sua onnipotenza e della sua bontà impedisse il dolore, dovrebbe impedire anche l’amore che presuppone la libertà. D’altra parte, secondo altri, questa è un’idea troppo semplicistica di Dio perché, se da una parte non possiamo venire a capo del senso della sofferenza alla luce della profondità della natura umana, così non possiamo ridurre Dio a una banale equazione – più bontà meno sofferenza - in nome del suo mistero inconcepibile e indicibile. Dio non impedisce la sofferenza, ci dice sant’Agostino, ma può trasformarla e operare il bene attraverso la sofferenza stessa. Ma, come detto, questo non avviene per magia. Per trasformare la sofferenza è indispensabile, accanto all’aiuto della preghiera, la nostra volontà. Se non cerchiamo di comprendere cosa ci è successo, se non abbiamo la volontà di fare luce dentro noi stessi per dare un nome e una buona ragione al senso di solitudine che ci opprime, anche la fede, se vista solo come comoda devozione in cui rifugiarsi, rischierà di non essere d’aiuto. La comprensione passa attraverso due momenti. Il primo è quello della spiritualità. La sofferenza della solitudine scuote la mia fede ma non può essere una sfida contro Dio, anzi è l’occasione per assumere un’immagine più matura del Padre e uno spunto per abbandonare proiezioni frutto di una fede infantile che immagina un mondo perfetto, senza dolore e senza conflitti. Quando, attraverso la preghiera, avremo fatto questo passaggio, sarà arrivato il momento dell’affidamento. Cosa vuol dire? Continuiamo a non comprendere pienamente dal punto di vista razionale quello che ci sta capitando, ma confidiamo nel fatto che Dio sa a cosa serve tutto questo. Non è rassegnazione, né sottomissione ma è il frutto di uno sguardo credente che, a poco a poco – e si tratta di un percorso che può durare una vita intera – arriva a riassumere il senso della nostra condizione di finitezza.
Il secondo momento è quella della comprensione umana che, dopo averci sollecitato a indagare per capire, o almeno per tentare di farlo, ci deve indurre a mettere in atto tutto quanto è nelle nostre capacità per superare il problema. Non possiamo pretendere con le nostre forze di cambiare il corso della storia, di rivoluzionare la società, e neppure di cancellare tutte le cause che stanno alla base del senso di solitudine dell’uomo postmoderno come dato storico-culturale – dall’industrializzazione al mondo digitale – ma possiamo attivare e promuovere reti relazionali, aggregazioni, momenti di vicinanza tra coppie e genitori. Condividere e partecipare è sicuramente un modo per sentirsi meno soli e per contribuire a costruire il bene comune. Dedicare anche soltanto qualche momento all’impegno nella propria comunità, per esempio, è un momento solidale che si ripercuote beneficamente anche a livello interiore e può diventare, agli occhi dei figli, un importante gesto educativo. Perché non provare?

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