La famiglia nella città: «Vi spieghiamo perché non si può stare da soli»
di Viviana Daloiso, Villapizzone (Milano)
Abbiamo trascorso una mattinata nella comunità di Villapizzone, a Milano, dove dagli anni Settanta si sperimentano vita e genitorialità condivise nel segno della sobrietà. Un modello alternativo possibile, che ha contagiato un intero quartiere

Le vetrate che affacciano sul grande cortile alberato – pare d’essere in aperta campagna – sono da sempre senza tende: quel che accade dentro, e fuori, devono poterlo vedere tutti. Il cancello e le porte, aperti: chi vuole, quando vuole, può entrare. C’è un silenzio quasi irreale, ma è destinato a durare poco: i bambini arriveranno da scuola, quelli del quartiere dalle loro case per affollare il parco giochi. Tornare nella comunità milanese di Villapizzone, dopo i giorni di dibattito e di scontro sulla famiglia nel bosco di Palmoli, significa anche tornare alle radici di cosa è davvero, famiglia, o di cosa dovrebbe essere. Dimenticate la scelta bucolica (e forse anche un po’ romanzata) del lasciare tutto, di chiudere il mondo fuori e isolarsi per “proteggere” i figli dai grandi mali del nostro tempo: se c’è una buona ragione per cui la famiglia mai e poi mai può diventare una monade, o un'isola, eccola prendere forma sul tavolo di legno della cucina di Danila e Massimo Nicolai, i pionieri che insieme a Enrica e Bruno Volpi nell’ormai lontano 1978 diedero vita alla prima esperienza milanese della vita in condivisione. «All’epoca per la gente eravamo quelli strani…» ricordano i coniugi sorridendo davanti alla stufa insieme a Betta, che col marito Tullio qui vive da trent’anni, e Manuela, che invece ha traslocato con Fabio, Marta e il piccolo Tommi da appena tre mesi. A Villapizzone – per chi non lo ricordasse o per chi proprio non lo sapesse – cominciò tutto con l’arrivo di un gruppo di gesuiti guidati da padre Silvano Fausti insieme alla tribù di Enrica e Bruno (una ventina di persone tra figli, figli in affido, famiglie di parenti e di amici), a cui qualche mese dopo si aggiunsero i Nicolai appunto, con la loro prima figlia piccola. Obiettivo: vivere gli uni accanto agli altri, all’insegna della fraternità evangelica, sostenendosi e mettendo al centro le cose che contano per davvero. «È quello che ha tenuto insieme noi due fin dall’inizio» racconta Massimo ripercorrendo le tappe di una storia d’amore straordinaria fino al primo incontro con Danila, a Lione, durante uno stage di formazione finalizzato allo scambio di culture coi Paesi più poveri. I due giovani, lei di Belluno, lui di Cremona, erano finiti lì per quella benedetta inquietudine che ancora oggi spinge tanti ragazzi a interrogarsi sulla vita, alla ricerca di un senso. Il viaggio li portò prima per due anni in missione in Ciad, poi a vivere nella prima comunità per tossicodipendenti di don Gino Rigoldi vicino a Casale Monferrato, poi a Imola insieme a un’altra coppia, infine a Milano.

Altro che bosco, «arrivammo nella grande città, ci affacciammo su questo cortile dove dominava il caos e ci trovammo subito un ordine, quello che avevamo sognato per la prima volta in Africa, a 5mila chilometri da casa». L’esperienza prese piede grazie alla donazione proprio alla famiglia Volpi di quel che rimaneva della residenza dei conti Radice Fossati, una struttura fatiscente lasciata in affitto al gruppo per mille lire al mese: «Iniziammo a metterla a posto, col passare del tempo arrivarono altre famiglie, gli uomini lavoravano agli sgomberi nel quartiere e come operai alla ristrutturazione della casa; le donne si occupavano dei figli – continua Massimo –. Condividevamo le spese e i guadagni, ciò che col tempo ci portò a costruire una cassa comune: ogni nucleo familiare usufruiva di un assegno in bianco, ci fidavamo gli uni degli altri, ci fidavamo del fatto che ciascuno di noi avrebbe usato il denaro per soddisfare il bisogno che reputava necessario. Quello che avanzava, alla fine dell’anno, lo destinavamo ad altri progetti di condivisione». Oggi l’associazione Mondo di Comunità e Famiglia, che da quell’esperienza ha preso forma, conta su 35 comunità sparse in tutta Italia, all’interno delle quali vivono stabilmente all’insegna dell’accoglienza, della solidarietà e della condivisione oltre 160 famiglie. I modi della convivenza sono cambiati coi tempi: le famiglie sono più piccole e anche le case si sono rimpiccolite, al quartiere e alla città mancano spazi di socializzazione e quegli spazi nella villa e nelle altre comunità vengono realizzati. Al cuore di tutto, però, resta l’idea semplice e rivoluzionaria che da soli non si va da nessuna parte, che una famiglia non basta a se stessa mai: «Non una teoria letta sui libri, ma la sensazione profonda che ciascuno di noi, in modo diverso, ha sperimentato fin dall’inizio del proprio percorso – spiega Betta –: quella di non sentirci capaci, da soli. Quella di non essere abbastanza per i nostri figli». È la radice di una genitorialità condivisa che qui è diventata realtà, a cominciare dalle porte comunicanti tra gli appartamenti e le tavolate comuni per i pasti, ed è la ragione per cui a Villapizzone e poi in tutte le altre “famiglie di famiglie” oltre ai figli che sono nati dalle coppie che ci hanno abitato e ci abitano, a centinaia ne sono stati anche accolti, chi per brevi periodi di affido, chi per percorsi che sono durati una vita, chi coi suoi genitori o fratelli: «Il figlio non è il centro della famiglia, il figlio è il frutto della famiglia. Se no, lo soffochi il tuo povero figlio; poi, se ne hai uno solo, peggio...» ripeteva d’altronde Bruno Volpi. «Ricordo ancora quando le mamme dei compagni di classe di uno dei nostri figli – racconta Danila – ci chiesero se invece che andare ai corsi di tennis i loro ragazzi potevano venire a mangiare qui a casa nostra, stare insieme nel cortile». Anche loro diventavano figli, nei pomeriggi d’estate, come i tanti giovani che arrivano in comunità per i gruppi di condivisione la domenica.

E questo diventare famiglia tutti quanti nella condivisione, a Villapizzone, in quello che sulla carta era destinato ad essere uno dei tanti quartieri problematici di periferia della grande città, ha generato (il verbo è quanto mai appropriato) esperienze di prossimità anche fuori dai muri della villa: piccole associazioni di promozione sociale, famiglie che hanno avviato esperienza di affido, altre forme di condivisione. Ancora, le costole principali dell’associazione Mondo di Comunità e Famiglia: la Fondazione I Care ancora onlus (attraverso cui prendono forma e vengono finanziati progetti a forte impatto sociale), la cooperativa Di Mano in Mano (che ha trasformato l’attività originaria degli sgomberi in una filiera di sostenibilità, dal recupero dei mobili a quello degli abiti fino a quello delle persone coinvolte) e più di recente la Quasilocanda (un locale nel cuore del quartiere che è bar, ristorante, centro di aggregazione, punto di riferimento per giovani e anziani). «Ci piace pensare che siamo stato contagiosi – proseguono Danila e Betta –, che come in un processo di osmosi quello che accadeva qui da noi produceva effetti anche fuori. Non perché ci siano mai state, qui, pratiche codificate o perché noi fossimo un modello di perfezione, tutt’altro. Piuttosto perché siamo sempre stati visibili, per quelle tende che abbiamo deciso di non mettere mai alle finestre delle nostre case». «Visibili nei nostri limiti anche – aggiunge Manuela –, nella nostra fragilità: “Se ce la fanno loro, che la possiamo fare anche noi” immagino abbia detto chiunque è passato da qui. Il mio limite, d’altronde, diventa risorsa per tutti gli altri: questo è il senso del nostro modo di vivere insieme». Tutto facile e bello? Nient’affatto. La fatica di essere «come minimo 10 in casa», di accogliere e fare propri i problemi di tutti, la vivono i grandi e anche i più piccoli. I figli di Villapizzone, chi laureato chi già al lavoro, non restano mai a vivere in comunità, «noi teniamo a che siano liberi di fare le scelte che vogliono per la loro vita, che portino avanti le loro ricerche di senso e le loro esperienze di condivisione. Molti in ogni caso hanno finito con l’impegnarsi in campo sociale, o nel Terzo settore. Una volta ci siamo sentiti dire, scherzando: “Cosa vi aspettavate, dopo averci cresciuti così?”» scherza Betta. La famiglia d’altronde è faticosa, «cosa c’è di più derelitto, di più abbandonato al mondo, di più problematico?» diceva sempre Bruno Volpi. E proseguiva: «Noi non andiamo a fare le sfilate e a dire al governo di risolverci il nostro problema. Noi ci alleiamo, facciamo comunità, facciamo il cortile d’una volta». Il suo sogno era che ognuno costruisse la sua Villapizzone, un “nodo territoriale” dove ci si possa incontrare e raccontare, dove si agisca tutti insieme per cambiare le cose. La famiglia nella città.
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