Definisci fratello, dopo aver letto la storia di Pietro e Giovanni
Il ju-jitsu ha unito i fratelli Napoli da quando erano piccoli e li ha portati in Cina, dove hanno vinto una medaglia. Quando l’amore è più forte della sindrome di Down e la parola "siblings" non basta per capirlo

La mossa vincente sul tatami. Il verdetto della giuria. E poi, Pietro che salta al collo di Giovanni, gli si avvinghia addosso con le braccia e con le gambe, alza il pugno verso il cielo, in segno di vittoria. Sorride, di un’emozione incontenibile, e finalmente si lascia andare a un urlo di gioia felice e liberatorio. Fra le tante immagini che celebrano la vittoria a Chengdu, in Cina, è questa, più di tutte, a dare la misura del rapporto speciale che da sempre lega Pietro a suo fratello Giovanni. Insieme, hanno appena conquistato una medaglia d’oro nel para Ju-jitsu ai World Games 2025, manifestazione sportiva internazionale alla quale partecipano atleti portatori di disabilità e non. Un sogno diventato realtà. Un lavoro di squadra – e di famiglia – che ha fatto sì che Pietro, 19 anni, fosse il primo ragazzo italiano con sindrome di Down a prendere parte a questa competizione con Giovanni, di dieci anni più grande. Impegno, dedizione, talento, amore fraterno. E anche qualche inevitabile litigio. È questa l’alchimia che ha portato i fratelli Napoli sul gradino più alto del podio ed è una storia che proviamo a raccontare attraverso le parole di Giovanni.
«Quando Pietro è arrivato nella nostra famiglia, io ero il più piccolo e il mio ruolo, da subito, è stato quello di giocare con lui. Camilla e Tommaso, gli altri nostri due fratelli, erano più grandi e potevano essere d’aiuto in altro modo» ricorda. «Nello sport, poi, abbiamo riprodotto le dinamiche del nostro rapporto. Io ho iniziato a praticare il ju-jitsu quando avevo 17 anni e dopo un po’, anche su consiglio dei miei allenatori, Pietro è venuto in palestra con me. Stava crescendo e le arti marziali per lui sono state un ottimo modo per conoscere il suo corpo e la sua forza. Sul tatami, così come nella vita, io non gli ho mai fatto sconti… Quando fa una cosa giusta, mi congratulo con lui e ne sono fiero. Quando sbaglia, però, glielo dico e, se serve, mi arrabbio anche». Complicità e sano distacco, passioni comuni e percorsi che seguono strade differenti. Un legame naturale, un rapporto che va oltre la disabilità. Perché Pietro e Giovanni sono innanzitutto fratelli. «Quando Pietro è nato, io ero piccolo, certo, ma non così piccolo da non capire che il mio ruolo sarebbe stato in qualche modo messo in pericolo. Non sarei più stato il cucciolo di casa, coccolato da tutti. Per me era normale che fosse così, però, indipendentemente dalle difficoltà di Pietro. Certo, ci sono stati momenti in cui ho temuto di diventare “trasparente” proprio perché lui aveva dei bisogni un pochino più speciali. Per contro, però, vivevo anche la gioia di avere un nuovo fratellino». Ed è stato normale, prosegue con sincerità disarmante Giovanni, proprio come accade in ogni famiglia, anche che il rapporto con i genitori si complicasse durante l’adolescenza e che lui cercasse un distacco maggiore da Pietro. «Non lo facevo a causa della sua disabilità, ma perché in quel momento la mia indipendenza era importante. A 18 anni volevo uscire da solo con i miei amici e non portarmi appresso un bambino che aveva dieci anni meno di me».

Rabbia, solidarietà, ribellione, affetto. Come in ogni casa, anche in quella dei due ragazzi le emozioni sono passate tutte. Alcune forse sono state più intense, «ma in famiglia abbiamo sempre avuto un buon rapporto, basato sul confronto, anche acceso qualche volta, e sul dialogo e abbiamo sempre affrontato le cose insieme. Ai miei genitori riconosco il merito di aver fatto un lavoro eccellente per rendere Pietro il più autonomo possibile. E di aver preso in considerazione le nostre idee su quali potevano essere le scelte migliori da fare per lui». Per Pietro, Giovanni è sempre stato un punto di riferimento fondamentale («un po’ per gioco, un po’ no, mi chiama “mitico”…»). Per Giovanni, Pietro è un fratello speciale, che lo aiuta a osservare le cose da un punto di vista particolare, che gli ha insegnato il valore delle cose, che l’ha fatto diventare grande. «Pietro è molto socievole e fa amicizia velocemente, anche se poi non tutti riescono davvero a vedere lui prima della sua disabilità. È determinato e ha grande forza di volontà nelle cose che gli interessano. Quando qualcosa non gli piace, però, non c’è verso di fargli cambiare idea. È anche furbo (chissà come mai, da bambino, ad abbracciarlo erano sempre le ragazze più carine) e, ogni tanto, “approfitta” un po’ della sua situazione. Ed è questo poi che ci fa litigare, perché io vorrei che lui rigasse sempre dritto, senza nessun piccolo inganno». Quello che però più piace di Pietro a Giovanni è il suo entusiasmo. «È sempre allegro, contento, anche per le cose più semplici. Pietro non mi ricorda, a parole, che bisogna essere felici della vita. Pietro, semplicemente, è felice, ogni giorno. E questo, per me, è un grande esempio».
Le vite invisibili (e preziose) dei “siblings”
Prima di tutto bambini, adolescenti, giovani adulti. Al di là della definizione che li vuole “fratelli e sorelle di bimbi malati o con una disabilità”, ecco chi sono i siblings. Spesso, crescono più in fretta dei loro coetanei. Si fanno carico di responsabilità per loro troppo grandi da sostenere. Imparano da subito a stare in silenzio, per non pesare su genitori già fin troppo affaticati. Diventano invisibili agli occhi dei più. Anche loro, però, hanno paure e desideri di libertà e vivono una quotidianità fatta di sfide, emozioni contrastanti e momenti di crescita. Vederli nella loro identità è un cambio di prospettiva fondamentale per capire la loro realtà. Non ci sono dati certi che ci dicano quanti sono esattamente i siblings, ma le stime sono legate al fatto che circa l’80 per cento delle persone con disabilità ha almeno un fratello o una sorella. Numeri importanti, che richiedono una riflessione. «Una riflessione che deve cominciare proprio dall’unicità della loro condizione» sottolinea Andrea Dondi, psicologo, psicoterapeuta e coordinatore della sede milanese di Fondazione Paideia, che offre sostegno ai bambini con disabilità e alle loro famiglie. «Perché a differenza di quanto accade ai genitori, che entrano in contatto con la disabilità o la malattia in coincidenza del fatto di avere un figlio, per i siblings questa esperienza fa da subito parte della loro vita e mantiene un ruolo importante per tutto l’arco della loro esistenza. Questo li aiuta, soprattutto quando sono piccoli, ad avere una visione del rapporto fraterno la più semplice e naturale possibile. E il loro è uno sguardo prezioso anche per i genitori, che invece spesso sono prigionieri dei limiti della disabilità e vedono solo ciò che manca. Anche i bambini lo vedono, ma lo osservano da un’altra prospettiva».
«Anche per loro è tutto più faticoso. Anche loro, come i genitori, devono elaborare il lutto di un fratellino o di una sorellina che non sono come ci si aspettava» continua Marta Scrignano, pedagogista e responsabile del servizio pedagogico-educativo di Vidas. Sono anche curiosi, però. Si entusiasmano quando scoprono che ci sono molti modi per giocare insieme, attraverso oggetti che coinvolgono tutti i sensi. «Sanno ridere, senza cattiveria ma con l’ironia buona della familiarità, dei movimenti scoordinati dei fratelli. E quando sentono di poterlo fare, svelano i loro sentimenti più profondi, rivelano le loro risorse più nascoste. Nel lavoro che facciamo con loro a creare un dialogo è l’arte, in tutte le sue forme. Una storia, un disegno, una fotografia, una maschera di cartoncino». Come ha appena ben raccontato il progetto fotografico di Valentina Tamborra (diventato anche una mostra, dal titolo Con la nostra voce - Storie di libertà), che attraverso immagini, suoni e parole ha dato forma alle loro emozioni. Emozioni che non sono sempre facili da far emergere, perché questi bambini vivono in un contesto familiare più stressato e più stressante, dove i genitori devono gestire situazioni spesso complesse. E inevitabilmente, corrono il rischio di rimanere sullo sfondo della scena rispetto a quelle che sarebbero le loro necessità. «La relazione fra fratelli ha da subito una connotazione particolare. Può essere difficile avere un rapporto di reciprocità e spesso i genitori tendono a disincentivare il conflitto e la manifestazione di rabbia o frustrazione, per proteggere il figlio più fragile» riprende Dondi. Sin da piccoli, allora, i siblings assumono un ruolo di supporto e, anche se non sono i primogeniti, tendono a vedersi come fratelli maggiori, in una inusuale inversione di ruoli. «Così come per loro diventa rapidamente necessario interrogarsi su questioni lontane nel tempo che però hanno da subito significato. Che cosa succederà quando i miei genitori non ci saranno più? Come sarà la mia vita? Quali scelte potrò e dovrò fare?».

Questo forte senso di responsabilità, però, non impedisce loro di attraversare tutte le tappe di un normale percorso di crescita. È un cammino prezioso, che i genitori dovrebbero proteggere e comprendere. Sapendo riconoscere anche la necessità di esprimere difficoltà e ambivalenze. «Questo non è sempre facile da accettare, perché per i genitori la priorità è il senso di protezione nei confronti di chi è in difficoltà e quindi tendono ad attribuire tutto a una distanza emotiva legata alla disabilità. In realtà, è semplicemente parte di una relazione fra fratelli che nel tempo si modifica. Ci sono momenti di vicinanza e altri in cui si sente la necessità di un po’ di distanza» spiega ancora Dondi. «Tutti i bambini, a un certo punto, non hanno più voglia di condividere la camera con i fratelli. Tutti gli adolescenti, a un certo punto, privilegiano il rapporto con i coetanei, desiderano essere più autonomi per trovare il loro posto nel mondo». Ecco, allora, che diventa fondamentale immedesimarsi nella loro età, stare loro accanto con uno sguardo sensibile, non giudicarli solo con il metro della malattia, coinvolgerli nelle scelte familiari, per far sì che possano guardare con serenità al loro futuro. E ancora, spingerli a confrontarsi con chi vive la loro stessa esperienza. «Il confronto è importante, ma purtroppo non è ancora immediato. In una recente indagine condotta con Doxa sull’impatto della disabilità sul sistema familiare, il dato sulla partecipazione a percorsi dedicati ai siblings è significativo. Il 67 per cento delle famiglie ha dichiarato di non avervi mai preso parte; il 45 per cento non era a conoscenza di questa possibilità; il 25 per cento non aveva disponibilità vicino a casa. Per contro, l’86 per cento di chi vi ha preso parte l’ha ritenuta molto utile» evidenzia Dondi.
C’è ancora molto da fare allora, non solo in termini di informazione, ma anche nel creare spazi di incontro. «E il progetto a cui stiamo lavorando si muove proprio in questa direzione. L’anno prossimo, infatti, inaugureremo a Milano il Paideia Siblings Hub, uno spazio dove sentirsi visti, accolti, compresi». Convivere con il dolore comporta una sfida importante, perché bisogna riuscire a fare spazio dentro di sé a sentimenti contrastanti. Spesso un genitore fatica a legittimarsi di essere arrabbiato o triste. «Un bambino, invece, sa dare voce più facilmente anche alle sue emozioni più dure e faticose. È importante ascoltarlo, allora, e condividere con lui ciò che prova, perché questo è il modo migliore per farlo sentire protetto» conclude Scrignano. La sofferenza preme per prendersi tempo, vita, energia. È una battaglia quotidiana che sembra non lasciare posto a nient’altro. Eppure, l’identità di ciascuno rimane e, anche fra mille difficoltà, è importante preservarla. «E spesso sono proprio i siblings a far sì che in famiglia ciascuno riscopra qual è davvero il suo ruolo, prima di ogni altra cosa. Perché una mamma è prima di tutto una mamma, un papà è prima di tutto un papà. Insieme, sono prima di tutto una coppia. E un bambino è prima di tutto un bambino. E come tale va sempre considerato, anche nella malattia e nella disabilità».
© RIPRODUZIONE RISERVATA






