Come si costruisce una famiglia oggi? Tutte le risposte che servono
di Luciano Moia
Dal fidanzamento al matrimonio fino ai figli, all'adozione, alle crisi: la nostra cassetta degli attrezzi per chi decide di allargarsi

Come nasce una famiglia?
La risposta più semplice sarebbe “da un’altra famiglia”. Sembra una battuta, ma c’è un fondo di verità. Per formare una nuova famiglia – non è una grande scoperta - bisogna essere in due. Una donna e un uomo. Escludiamo tutte le altre situazioni? No, ma ne parliamo dopo, non perché vogliamo stabilire una gerarchia etica, ma perché sono un’altra cosa. Quindi una donna e un uomo. Da soli? No, alle spalle di questa donna e di quest’uomo ci sono altre due famiglie. E, alle spalle di queste, altre famiglie ancora, e poi risalendo, altre e poi altre e poi altre, in una lunga catena di generazioni di cui la maggior parte di noi ha perso memoria. Ecco, quando ci chiediamo come nasce una famiglia, la risposta più corretta potrebbe essere questa: da una lunga storia. Spesso dimentichiamo di raccontarlo ai ragazzi che cominciano a intrecciare una relazione e a fare progetti di vita a due. Pensano che il mondo cominci con loro. Ma alle spalle di ciascuno di noi c’è un lungo passato familiare che non può mai essere ignorato. Quando ci dimentichiamo da dove arriviamo, spesso non sappiamo dove andare. Il nostro passato familiare, qualunque esso sia, dev’essere visto come un valore non, come troppo spesso pensano i giovani, una zavorra. Quindi ricapitoliamo: una donna, un uomo, una lunga storia. E l’amore? È fondamentale, diciamo oggi, ma un tempo non era indispensabile. Solo un paio di generazioni fa, i genitori sceglievano le mogli o i mariti dei loro figli. Contavano gli interessi economici, i patrimoni, le appartenenze sociali, le questioni dinastiche e tanto altro ancora. Anche in quel modo nascevano famiglie, talvolta più solide di quelle che fondate sui sentimenti. Sarebbe interessante scoprire perché, ma ci vorrebbe un manuale di storia del matrimonio. E noi qui, pur non dimenticando il passato, vogliamo parlare del presente e del futuro. Quindi parliamo di amore. E anche di responsabilità e di progettualità. Ma andiamo per ordine.
Come si definisce una famiglia?
La Chiesa ci offre una definizione meravigliosa: la famiglia è comunità di vita e di amore. Il punto di partenza è quel passaggio di Genesi, citato anche da Gesù, in cui si spiega che «Dio creò l’uomo a sua immagine… maschio e femmina li creò». E papa Francesco in Amoris laetitia commenta: «La coppia che ama e genera la vita è la vera scultura vivente, capace di manifestare il Dio creatore e salvatore». Potremmo chiudere qui. Abbiamo già detto tutto. Ma sappiamo che non sempre il linguaggio ecclesiale è oggi facilmente comprensibile. E che la complessità in cui viviamo ci obbliga a mettere da parte le semplificazioni. Quindi cos’è una famiglia? Il primo modello a cui pensiamo è quello che rimanda alla presenza di una mamma e di un papà che sono anche moglie e marito. E, accanto a loro, uno o più figli. Le statistiche ci dicono però che in Italia – ma anche in tutto il mondo occidentale - le coppie sposate con figli sono ormai minoranza rispetto alle altre tipologie familiari e che nel 2040 – quindi tra soli 15 anni – rappresenteranno in Italia solo il 20 per cento del totale. E il restante 80 per cento? Saranno coppie senza figli, genitori soli con figli, di cui sette su dieci mamme. Coppie riaggregate, coppie omoaffettive con e senza figli, famiglie “unipersonali” o “famiglie senza nuclei”, altri tipi di famiglia, come spiega l’Istat, formate da persone senza vincoli di parentela e senza legami. Se dal punto di vista statistico tutte queste realtà possono essere qualificate come “famiglia”, dal punto di vista sostanziale siamo di fronte a un’altra cosa. Meglio? Peggio? Ripetiamo, non vogliamo stilare classifiche etiche e neppure demonizzare i cambiamenti o invocare improbabili ritorni al passato. Ma riflettendo insieme sulla realtà della famiglia – o delle famiglie – vorremmo aiutarci a capire dove stiamo andando e come ricostruire una comunità, che è sempre somma delle famiglie che la formano. Una comunità in cui per i giovani ci siano prospettive di futuro fondate sulla bellezza delle relazioni. Dentro e fuori la famiglia. E questa prospettiva dove si parla di bellezza, di relazioni, di amore e di futuro si chiama famiglia. Quindi andiamo avanti.
Ma se non ci sposiamo, può nascere lo stesso una famiglia?
In questi ultimi anni sono state tante le ricerche che hanno cercato di ipotizzare la famiglia che verrà. Si è parlato di fine della famiglia, di società post-familiare, di evaporazione della famiglia tradizionale. Tutto in vero, almeno in parte. Le statistiche sono lì a raccontarlo. La famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, aperta alla vita, ponte tra le generazioni si sta dissolvendo sotto i nostri occhi. Facciamo fatica ad accettarlo, anche se non si tratta di una sorpresa totale. La circostanza è così densa di interrogativi da sollecitare domande affollate da preoccupazioni. Nel senso che conosciamo molto bene i valori, i vantaggi, le risorse del modello di famiglia che stiamo, in qualche modo, per lasciarci alle spalle, comprese ombre e contraddizioni. Ma non sappiamo quasi nulla delle conseguenze determinate dalle nuove forme familiari, da quello cioè che ci attenderà in un futuro ormai prossimo. Soprattutto facciamo fatica ad immaginare, ad accettare interiormente, la società che verrà modellata da queste forme fluide, riaggregate, mutevoli, ricomposte, anche non binarie, secondo schemi che conosciamo abbastanza ma di cui ignoriamo gli effetti a lunga scadenza. Ora, tornando alla nostra domanda iniziale, sappiamo che il numero dei matrimoni è in costante calo da almeno trent’anni (circa 180mila lo scorso anno rispetto agli oltre 500mila all’inizio degli anni Settanta) e che in questa parabola discendente sono soprattutto le nozze in chiesa ad aver subito il contraccolpo più terribile. Il dato più sconcertante arriva da Milano che, come sappiamo, anticipa tradizionalmente, nel bene e nel male, le tendenze sociali del Paese. Da gennaio a maggio, a fronte di 929 matrimoni civili, quelli religiosi sono stati solo 63, poco più del 7 per cento. Possibile che il valore del matrimonio-sacramento si sia così offuscato agli occhi dei giovani o meno giovani che arrivano al matrimonio? Quando il cambiamento tocca così profondamente le relazioni umane, quelle fondate sui legami d’affetto che costruiscono il futuro, è indispensabile avviare nuove proposte attingendo a una rinnovata fantasia della carità, senza rifugiarsi sulle illusorie sicurezze del passato. Ecco perché – per tornare alla nostra domanda iniziale – siamo convinti che certamente, anche senza matrimonio, possa nascere una nuova famiglia. Ma, senza matrimonio, quella coppia sarà un po’ più povera. E, senza matrimonio-sacramento – sempre che questa scelta venga compresa in un orizzonte di fede - ancora di più. Ma occorre spiegarlo, non imporlo a colpi di precetti e di tradizioni. Ed è quello che cercheremo di fare. Quindi andiamo avanti.
Perché il matrimonio è un valore per tutti, dentro e fuori dalla famiglia?
Per qualcuno può sembrare una domanda scontata, per altri talmente complicata da far apparire folle ogni tentativo di risposta. Eppure dobbiamo avere il coraggio di farcela, proprio oggi che il matrimonio, almeno dal punto di vista dei consensi, non sembra più viaggiare con il vento in poppa. Per costruire la famiglia basta una buona relazione? Basta convivere e amarsi? La risposta è tanta semplice quanto perentoria: no, non basta. Il matrimonio è un’altra cosa. E non dobbiamo avere paura di dirlo. Attenzione, non parliamo del sacramento (affronteremo il tema più avanti) ma proprio del matrimonio come istituzione sociale, culturale, antropologica. Innanzi tutto smettiamo di dire che il matrimonio è un contratto. Una donna e un uomo che si amano e vogliono costruire un progetto che, almeno nelle intenzioni, prosegua per tutta la vita, non sono due società che stabiliscono un accordo per trarne dei vantaggi, come appunto è un contratto. Il matrimonio è un patto, un’alleanza a due le cui caratteristiche sono definite dalla legge ma che va molto oltre la legge, perché il suo fondamento è la gratuità. Il personalismo parla di matrimonio come di “unione comprensiva del tutto” che è una magnifica definizione a patto di spiegarla. Vuol dire che ci sono una unione di volontà (amarsi e volersi amare) e un’unione fisica (per il diritto canonico senza unione dei corpi non c’è matrimonio). Una scelta che costruisce il bene della coppia in una logica di reciprocità (l’uno costruisce e ha a cuore il bene dell’altra e viceversa), costruisce il bene dei figli e il bene della società. Spesso si dice che la famiglia rappresenta la prima cellula della società. Ma si tratta di una definizione imprecisa. Il primo bene della società è il matrimonio. Senza matrimonio non c’è famiglia e non c’è società. Dovremmo aggiungere che non c’è neppure comunità ecclesiale, ma lo spiegheremo dopo. E, se è vero – come è vero – che una catena è forte quanto il suo anello più debole, tanti matrimoni forti formano una società forte, coesa, unita, compatta. Cioè proprio il contrario della società in cui viviamo dove, guarda caso, i matrimoni sono eventi sempre più rari e sempre più fragili. Ecco perché la società, quindi lo Stato che ne incarna gli interessi, dovrebbe porre la massima cura per preparare, sostenere e salvaguardare il matrimonio come forma più elevata e più completa del bene comune. Purtroppo, come sappiamo, succede il contrario. Tanta cura e tante leggi per salvaguardare il diritto di lasciarsi, quasi nulla per fare il contrario. Eppure nessuna altra unione ha le stesse caratteristiche di questa amicizia esclusiva che coinvolge anima e corpo, in cui l’unione fisica consolida il bene dello spirito e l’atto generativo costruisce un futuro che va oltre il bene personale, così come la fecondità va oltre il dato organico e diventa un compito senza limiti, nella prospettiva di un impegno permanente ed esclusivo. Ecco, in poche parole, abbiamo cercato di tradurre l’espressione “amore per sempre”. Potrebbe sembrare qualcosa di tanto impegnativo da apparire ai più giovani scoraggiante e un po’ monotono se non dicessimo anche che nulla, come un amore esclusivo che dura nel tempo, offre ai due sposi ampie dosi di benessere globale, buona salute e buon’umore. Insomma, si sta meglio nel corpo e dello spirito. E si vive più a lungo. E alla fine si sorride insieme. Lo accertano senz’ombra di dubbio la scienza e l’esperienza. Provare per credere.
E come ci si prepara al matrimonio?
Potremmo rispondere con una battuta: basterebbe guardare come hanno fatto i propri genitori, ma sarebbe semplicistico e, in buona parte, anche ingiusto. Facile immaginare repliche e contestazioni: “Ma se i miei hanno litigato per una vita”. O anche peggio: “Mia madre e mio padre si sono separati quando avevo tre anni”. Tutto vero e, purtroppo, tutto possibile. Allora diciamo che avere come esempio due genitori che hanno avuto un matrimonio felice – diciamo almeno un po’ sereno - è la migliore premessa per costruirne uno altrettanto soddisfacente. A patto, naturalmente, di adattare modalità e criteri a una sensibilità di coppia che negli ultimi decenni è profondamente mutata. I modelli dei nostri genitori e ancora di più dei nostri nonni oggi sarebbero inaccettabili e incompresi. La moglie casalinga che si occupa della casa e dei figli, e il marito che pensa esclusivamente al lavoro senza preoccuparsi troppo di aspetti educativi o relazionali rappresentano stereotipi ormai improponibili. Il fondamento per costruire un rapporto di coppia sano e felice è la pari dignità degli sposi. Che poi deve tradursi in una relazione capace di declinare questo concetto nella vita ordinaria. Abbiamo già parlato sopra di reciprocità. Ma lo ripetiamo perché questa è la strada vincente. Perché solo la reciprocità permette ad entrambi di crescere nella conoscenza e nella consapevolezza di poter contare sull’amore, sul sostegno, sulla benevolenza dell’altro/a. “Io faccio il tifo per te, tu fai il tifo per me”. La reciprocità, che è qualcosa di più profondo e di più equilibrato della complementarietà, è anche il miglior antidoto contro le ingiustizie di genere. E, combattendo le ingiustizie, combatte la violenza. Come si insegna tutto questo ai ragazzi più o meno giovani che si avviano al matrimonio? Non è semplice, e infatti i tanti percorsi di preparazione al matrimonio proposti da parrocchie, diocesi e associazioni ricalcano purtroppo in larga parte ancora il modello che papa Francesco ha definitivamente archiviato perché quasi esclusivamente fondato su «questioni dottrinali, bioetiche e morali». Che, evidentemente, sono importanti, ma non bastano a costruire quei percorsi di felicità che dovrebbero costituire il nucleo del matrimonio. Tanto più se si decide di abbracciare i principi del matrimonio cristiano. Occorre andare oltre e adeguare la proposta a nuove esigenze e nuove sensibilità. Le nostre comunità lo stanno facendo? Sì e no. Vediamo perché.
Amore umano o amore cristiano?
È una delle domande che ricorreva più frequentemente all’inizio dei corsi di preparazione al matrimonio di qualche anno fa. L’esperto di turno cercava di motivare l’imperfezione del primo (umano) e l’idealità del secondo (cristiano), spesso mettendo in luce la contaminazione erotica e possessiva dell’amore umano di fronte al distacco e alla dimensione ascendente di quello cristiano. Per fortuna la teologia ha fatto chiarezza, spiegando una volta per tutte che eros e agape sono due dimensioni complementari e non contrapposte, e che entrambe, con pari dignità, servono a costruire l’unico amore. Chi pretende di separare eros ed agape, rischia di staccare la vita dalla fede e di costruire un modello di amore talmente idealizzato da apparire poco credibile. Quando parliamo di coppia o di famiglia perfetta, o ideale, tipo quelle sempre in prima fila alla Messa domenicale, ai servizi in parrocchia e in tutte le attività ecclesiali, rischiamo di scoraggiare i fidanzati che si timidamente si avvicinano all’ipotesi del matrimonio: «Noi non ce la faremo mai ad essere come voi. Siete troppo perfetti». Naturalmente non è vero. Anzi, tanto più una coppia cerca di mostrarsi esemplare tanto più nasconde difetti e contraddizioni. Papa Francesco ha ripetuto spesso che le famiglie vanno accolte così come sono. Allo stesso modo deve succedere per le giovani coppie che chiedono di essere accompagnate a comprendere il senso del matrimonio cristiano. Inutile inondarle di complicati concetti teologici, di contenuti “alti”, di elementi dottrinali. Occorre invece partire dalla loro esperienza di amore. La “ministerialità degli sposi” è un aspetto straordinario della vita coniugale cristiana ma, raccontata così, rischia di apparire qualcosa di quasi preoccupante. Ma se noi diciamo che Dio prende tanto sul serio l’amore di due ragazzi da trasformarli in protagonisti della loro storia di coppia, nella Chiesa e nella società, avremo spiegato in modo accattivante e simpatico un concetto difficile. Ecco perché la gioia dell’amore è, allo stesso tempo, profondamente umana e profondamente cristiana. Ma raccontiamola in modo semplice.
Dalla promessa di amore alla realtà quotidiana. Perché è così difficile?
Le parole della Chiesa non lasciano spazio ai dubbi. Se si sceglie di sposarsi in chiesa, cioè di vivere un’unione coniugale benedetta dal sacramento del matrimonio, occorre accogliere quello che la Chiesa dice al proposito. Sulla teologia del matrimonio sono state scritte intere biblioteche ma qui sarà sufficiente riflettere su cinque punti: unità, fedeltà, libertà, indissolubilità, fecondità. Chi non è convinto che ciascuno di questi punti sia decisivo per vivere seriamente la propria storia di coppia, forse è meglio che non si sposi in chiesa. Anzi, come spiega il diritto canonico, se qualcuno in cuor suo ritiene di non poter aderire a questi principi e ugualmente pronuncia il “sì” all’altare, quel matrimonio è nullo, cioè è come se non fosse mai stato celebrato. Ma senza addentrarci nel ginepraio delle cause di nullità, facciamo un passo indietro e proviamo ad analizzare i punti in questione. Quando due persone, una donna e un uomo, sono legati da amore autentico, desiderano costruire una relazione che cresca nel tempo, vivono in modo appassionato la loro relazione e sono animati dal desiderio di accogliere nella loro vita le indicazioni del Vangelo, le promesse sgorgano con molta facilità. «Vivrò sempre con te» (unità), «Non ti tradirò mai» (fedeltà), «Rispetteremo per sempre questa unione in Cristo» (indissolubilità), «Apriremo il nostro amore al dono della vita» (fecondità), «Farò di tutto perché tu possa vivere all’interno della nostra coppia in modo libero e autonomo, realizzando al meglio la tua vocazione» (libertà). Come è evidente, dietro ciascuna di queste cinque promesse, c’è un mondo. L’esperienza di ogni coppia potrebbe declinare ogni punto all’infinito. Ed è in qualche modo la bellezza di questo mistero antico e sempre nuovo, in cui la sapienza della Chiesa non propone obiettivi irrealizzabili – a patto di spiegarla in modo comprensibile - ma s’innesta sulla verità umana, sulla gioia di un profilo alto che sarebbe davvero entusiasmante realizzare pienamente.
Poi, come sappiamo, la vita è complessa e la realtà non è sempre come vorremmo che fosse. Il divario tra promesse e realtà è fotografato dalle statistiche su separazioni, divorzi e dal numero delle nascite. Sempre di più le disgregazioni, sempre meno i figli. Quanto più una famiglia è fragile, quanto più non regge all’impatto della vita, con i suoi problemi e le sue asperità, tanto più aumentano i timori di mettere al mondo un bambino. E d’altra parte ci sono le difficoltà di chi, pur desiderandolo, non riesce ad avere figli. Vediamo questi due aspetti.
«Ti amo tanto, ma non parlarmi di bambini»
Le cause della denatalità sono tanto complesse quanto infinite. Sui nostri media abbiamo affrontato la questione migliaia e migliaia di volte. Abbiamo puntato il dito contro la politica, colpevole di non varare provvedimenti davvero family friendly, a cominciare dal sistema fiscale iniquo che non riconosce sconti proporzionali alle famiglie più numerose. Abbiamo puntato il dito contro una certa cultura dell’egoismo e dell’autodeterminazione che ha indotto tante coppie a rinviare o addirittura a cancellare il progetto di un figlio per far posto alla carriera, alla ricerca della stabilità economica, alla libertà di poter disporre del proprio tempo senza “intralci”. A pesare in modo negativo anche tante narrazioni sulle fatiche sempre più pesanti che toccano ai genitori, sempre più soli ma anche ridotti a “mamma taxi” e “papà bancomat”, espressioni anche simpatiche ma che rivelano un impegno sempre più gravoso perché condotto troppo spesso senza aiuti né interni – quelli che una volta erano assicurati dalle reti familiare allargate – né esterni – la scuola, l’oratorio, le associazioni, la comunità, a riprova che la disgregazione sociale, lo sfilacciamento di tanti rapporti che un tempo assicuravano riferimenti certi, oggi costringe la maggior parte dei genitori a coprire troppe assenze e troppi vuoti. E il “troppo” alla fine rende la vita impossibile. Solo luoghi comuni ingigantiti dalle teorie del movimento childfree? Sì e no. Da una parte c’è il fondamento dell’apertura alla vita come frutto dell’amore di coppia. Papa Francesco in Amoris laetitia ci ha spiegato che “l’amore dà sempre vita”, cioè che ogni autentica relazione per essere tale dev’essere anche generativa. D’altra parte la coppia vive anche di concretezze e di bisogni. Per accogliere il figlio come dono e non carico di fatiche quasi insopportabili dev’essere messa nelle condizioni di farlo e deve trovare nella società e nelle istituzioni i sostegni necessari. Possiamo fare i discorsi più sublimi sulla gioia dell’apertura alla vita e sul valore della generatività ma se nelle nostre città diventa impossibile conciliare lavoro e famiglia, se non ci sono asili nido, se non c’è un parco dove far giocare i piccoli, se non c’è una scuola consapevole e “amica”, se – per citare una delle tante carenze - non ci sono iniziative efficaci per accompagnare i genitori nell’arcipelago dell’educazione digitale, l’idea di un figlio non diventa un lieto progetto di futuro ma un macigno che rischia di stritolare e di annichilire. Per troppe coppie oggi l’apertura alla vita non si inquadra più nella bellezza della normalità ma nell’eroismo di una scelta che sempre meno persone possono permettersi. Dobbiamo contribuire a sradicare questo pensiero perché cancellare la speranza della generazione è la più grande ingiustizia che una società possa riservare ai suoi figli.
«Vogliamo una grande famiglia, ma se i figli non arrivano?»
La sterilità è un’ipotesi sempre più diffusa. La maggior parte degli aspiranti genitori scopre che qualcosa non funziona quando, dopo un periodo più o meno lungo di riflessione, dopo attese e ripensamenti, stabilito insieme che sì, è arrivato il momento di mettere al mondo un bebè, il concepimento non arriva. Le statistiche mediche dimostrano un aumento diffuso dei casi di infertilità. Tanti i possibili fattori: fumo, stress, inquinamento, disordini alimentari, prodotti chimici utilizzati nell’ambiente e, soprattutto, in agricoltura. Sullo sfondo l’età sempre più avanzata in cui si decide di diventare madri e padri. E, di fronte ad aspiranti genitori sempre più in là con gli anni, c’è una scarsa conoscenza del proprio corpo sia da parte delle donne sia da parte degli uomini. Ai corsi di preparazione al matrimonio capita di ascoltare ragazze che si stupiscono di fronte a informazioni mediche di base che dovrebbero ormai essere largamente diffuse, per esempio che la fertilità femminile diminuisce già a partire dai 30 anni e che intorno ai 40 le probabilità di diventare mamme risultano dimezzate rispetto ai 20 anni. Ma ci sono anche uomini che ignorano quanto siano disastrosi stili di vita segnati da abusi di alcol, stupefacenti, droghe, promiscuità sessuale. Così che quando, arrivati intorno a 32-35 anni – che è l’età media in cui oggi un uomo diventa padre nel nostro Paese – gli uomini scoprono di avere problemi di infertilità, vista l’impossibilità di mandare avanti i progetti generativi magari messi a punto dopo percorsi esistenziali faticosi, tutto sembra crollare. La via d’uscita più facile è allora la fecondazione medicalmente assistita, ma si tratta di un percorso che, al di là di certa facile propaganda, riserva più spesso delusioni che successi. La ricerca scientifica internazionale ha invece dimostrato in questi ultimi anni che un accompagnamento psico-relazionale specialistico può risolvere problemi di sterilità che non siano causati da gravi patologie organiche. Curare la relazione di coppia risolve spesso gli ostacoli degli aspiranti genitori che “non riescono ad avere figli”. I centri che si occupano di questi aspetti non sono molto diffusi ma offrono risultati spesso sorprendenti. E quando proprio i figli non arrivano, quando ci sono obiettivi ostacoli che rendono impossibile la fecondità biologica, c’è sempre la possibilità di una fecondità alternativa, quella che si concretizza con l’adozione e con l’affido. Anche aprire la porta di casa a un bambino che non ha i genitori, oppure che in quel momento ha bisogno di essere accompagnato nella sua crescita, è un modo nobile e importante per far nascere una famiglia. E quei genitori e dei quei figli non sono certo di “serie B”. Vediamo perché.
Adozione, affido
Una via d’uscita al problema della sterilità? Uno squarcio di speranza per i bambini che non hanno più una famiglia o ne hanno una che non è più in grado di badare a loro? Una possibilità di dare concretezza alla parola genitorialità per una mamma e per un papà che non riescono a soddisfare questo desiderio dal punto di vista biologico? Un gesto di straordinario altruismo personale che diventa anche testimonianza sociale e contributo alla cooperazione internazionale? L’adozione e, in misura diversa l’affido, sono tutto questo ma anche qualcosa di più, che non è facile definire. Eppure sui nostri media ne abbiamo scritto tantissimo. Avvenire è il quotidiano che da sempre dà più spazio al tema adozione e affido. Abbiamo raccontato esperienze e difficoltà burocratiche, percorsi legislativi e iniziative da parte degli enti e delle associazioni che se ne occupano. Nell’ultimo decennio abbiamo registrato la flessione costante del numero delle adozioni internazionali che sono passate dalle oltre 4mila l’anno del 2010 a meno di 500 degli ultimi anni. Stesso discorso per l’adozione nazionale. Nel 2001 ce ne furono oltre 13mila, poi il numero è costantemente calato attestandosi sotto quota mille all’anno in modo più o meno costante. Cioè la quota di bambini abbandonati alla nascita (ma anche in questo caso la flessione è significativa). Le ragioni di questa caduta libera sono tante e le abbiamo più volte illustrate, ma certamente fenomeni come il calo demografico, la crisi economica, il ricorso preferenziale alla fecondazione medicalmente assistita (i cui costi a differenza dell’adozione sono coperti dal servizio sanitario nazionale), le difficoltà burocratiche e, per quanto riguarda l’adozione internazionale, le risorse economiche necessarie. Per avviare e concludere un’adozione in un Paese straniero servono in media 15mila euro, ma si arriva anche a cifre decisamente più importanti se nascono complicazioni (tasse, spese mediche, esigenze di assistenza linguistica o giuridica) che obbligano la coppia adottante a fermarsi a lungo nel Paese di provenienza del bambino. Lo Stato poi, attraverso la Commissione internazionale per le adozioni, rimborsa circa il 50 per cento della spesa, ma spesso ci vogliono anni di attesa. Sullo sfondo anche scelte legate alla politica internazionale (guerre, sovranismo, mutamenti sociali) e a nuove letture culturali, sia nei Paesi occidentali sia in quelli di provenienza. Eppure, tutte queste difficoltà non hanno cancellato il senso di generosità che caratterizza da sempre le famiglie italiane (siamo ancora al secondo posto nel mondo per numero di bambini accolti dopo gli Stati Uniti che però hanno una popolazione cinque volte superiore alla nostra). Le domande di adozione nazionale sono circa dieci volte superiori alle possibilità reali di adottare. Quelle che riguardano l’adozione internazionale superano quota tremila. Ma poi, come detto, le difficoltà frenano tutto. Discorso un po’ diverso per l’affido, ambito in cui si registrano di anno in anno maggiori difficoltà nel trovare una famiglia accogliente e stabile, e un rischio crescente per i minori di rimanere in strutture residenziali o di vivere in condizioni di precarietà.
E quindi? Per adozione e affido dobbiamo rassegnarci a un declino senza condizioni? Niente affatto, le soluzioni ci sono, ma serve la volontà politica di immaginare leggi più adeguate (quella che regola questo settore ha più di 40 anni) che abbiano per esempio l’obiettivo di semplificare le procedure burocratiche, digitalizzare i processi, definire un archivio nazionale on line dei bambini fuori famiglia, immaginare uno sportello unico gestito dagli enti locali, sostenere economicamente e poi accompagnare dal punto di vista logistico ed educativo le famiglie adottive e affidatarie, con supporti psicologici integrati. Gli enti privati e le associazioni di settore ci credono. La politica deve dare risposta credibili. Non è una questione per pochi addetti ai lavori. Adozione e affido sono un po’ la cartina di tornasole del livello di accoglienza della società verso le persone più fragili e vulnerabili che sono appunto i bambini.
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