«Ai piccoli diciamo che la luce dell’anima non si spegnerà mai»
La psicologa Ines Testoni dirige un master universitario su fine vita e lutto spiegato all’infanzia. “I genitori per primi devono trasmettere un’idea di serenità su quanto ci attende nell'aldilà”

Non toccare l’argomento, non varcare la soglia di un cimitero, evitare di nominare qualche persona che è morta, perché i bambini non possono essere esposti a questo tema. Perché la precarietà umana, la finitezza, sono realtà che i più piccoli non devono incrociare, per non angustiarsi ed essere traumatizzati. Non è così, invece. E la paura della morte, l’incapacità di porsi di fronte al dato di fatto che tutti gli esseri viventi hanno una fine, è propria degli adulti. Anche perché occorre dare un senso al proprio vivere per evitare di negare la morte.
Ines Testoni, psicologa, docente dell’Università di Padova, da tempo si occupa di psicologia della morte, di fine vita, di lutto e dirige un master universitario in Death studies e the end of life. Conduce inoltre percorsi su morte e lutto con bambini.
Professoressa, perché esporre i più piccoli a questi discorsi e a questa realtà?
Perché siamo arrivati alla sesta generazione di famiglie “death free”, ovvero che non hanno vissuto al proprio interno un accompagnamento integrale della persona alla morte, perché, anche grazie a un sistema sanitario che funziona, esternalizziamo malattie, persone anziane, persone che muoiono. Ciò significa che gli adulti di oggi hanno nonni che non hanno esposto la loro vulnerabilità allo spettacolo della realtà relazionale familiare. Tutto passa attraverso la mediazione del lavoro di specialisti. Questo comporta la perdita di un linguaggio relazionale ed esistenziale rispetto al renderci conto che siamo fragili, che la vita deve fare i conti con la fine e che, quindi dobbiamo significarla nella sua interezza, in ogni sua fase. Perché arriveremo a fare i conti su che cosa ha significato vivere.
C’è quindi una incapacità degli adulti?
Gli adulti non sanno da che parte iniziare a spiegare ai bambini piccoli e agli adolescenti che è normale ammalarsi, morire. Accade che si trovino scuse di tutti i generi, la prima che occorra preservare i bambini. Invece i bambini, come gli adulti, cercano risposte dove vogliono e sono tutt’altro che incapaci di rendersi conto che si muore. Anzitutto perché sono costantemente esposti a messaggi di morte attraverso i media, e nella vita quotidiana, perché possiamo vedere per strada un uccellino investito, o a un ragazzino muore l’animale da compagnia. Perciò non è vero che li stiamo salvando dalla consapevolezza che si muore; li stiamo semplicemente mantenendo al di fuori di una negoziazione di senso attorno al vivere sapendo che si deve morire e, dunque, se si deve morire bisogna dar senso alla vita. Molta della superficialità alla quale assistiamo è data dalla perdita del senso del futuro da significare. Viviamo di un presente all’insegna del “divertiamoci più che possiamo” perché, inconsciamente, siamo angosciati dalla paura. Rimuovere l’idea della morte, della malattia, del morire, sostanzialmente fa sì che si rimuova nell’inconscio ciò che temiamo e di conseguenza lo lasciamo agire. Mai tacere fa sparire una paura. E tacere non fa sparire la morte, che incrociamo ovunque.
I bambini che atteggiamento hanno nei confronti della morte?
I bambini ragionano benissimo; introiettano delle informazioni per le quali però non hanno strumenti di elaborazione. Dai miei studi effettuati con bambini dai 5 anni in su, si evidenzia come vedano la morte come qualche cosa che riguarda fatti violenti. Quindi i bambini rischiano di non avere la percezione della normalità della malattia e del morire.
A quale età i bambini iniziano ad avere la consapevolezza della perennità di un distacco?
La rappresentazione che i bambini hanno della morte, se non entrano in contatto con messaggi formativi che diano una rappresentazione adulta e non ansiogena della morte, ciò nel sapere che è un processo che riguarda il corpo in forma irreversibile, che è universale, che riguarda anche se stessi, viene raggiunta attorno alla pubertà in forma più o meno drammatica. E i giovanissimi cercano risposte. Se si conduce un buon percorso di educazione alla morte e al lutto, queste consapevolezze si raggiungono attorno ai cinque anni.
Come sono articolati i percorsi che lei propone ai giovanissimi?
Utilizzo la competenza emozionale, cioè permetto ai bambini e agli adolescenti di entrare profondamente in contatto con loro stessi e riconoscere le loro emozioni, dar loro parola, metterle in un circuito di comunicazione per riconoscere il proprio stato d’animo e quello degli altri. Permetto di riconoscere ciò di cui hanno più paura. Se li lasciamo liberi di parlare delle loro emozioni, la prima cosa che affrontano è la morte, la seconda la morte dei genitori e la terza, la propria morte. Perché i genitori, quindi, non parlano di morte? Perché a loro volta non hanno argomenti per rasserenarli rispetto a tale paura. La seconda attività che compiamo nei percorsi è di parlare di quel che si prova. Poi c’è il passaggio della meditazione, entrando nella dimensione spirituale, che appartiene all’uomo, perché nessuno è senza “anima”. Basta poco per accendere la luce interiore delle persone. Uso anche, coi bambini, pittura e arti plastiche per descrivere la loro luce interiore. Si può parlare coi bambini di morte: bisogna saperlo fare.
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