
C’è una bellissima pubblicità brutta in questi giorni sui nostri periodici e quotidiani. La definisco ingenerosamente brutta, semplicemente perché non risponde ai canoni patinati delle pagine promozionali a cui ci si abitua con il tempo. Il linguaggio dei media ha una sua poetica che rientra nel patto di verosimiglianza con la realtà. Sospende l’incredulità, come le religioni, la mitologia, le favole: non è vero, ma ci crediamo alle mozzarelle che colano siero negli spot in prima serata, alle merendine che sembrano appena sfornate dopo una notte a lievitare nel granaio, ai tortellini industriali lavorati dalle mani delle comparse dentro cucine di campagna, e così via. Per la maggior parte dei prodotti destinati a dispense e frigoriferi, da sempre il racconto pubblicitario si avvale del lavoro di art buyer, food stylist, make up artist e mestieri (rigorosamente anglofoni come per la maggior parte delle trovate di marketing) che preparano il nostro cibo come la moda prepara chi veste l’ultima collezione.
Instagram ha portato alle estreme conseguenze il tutto: il #foodporn ha magnificato il nostro mangiare, lo scatto zenitale al ristorante riprende dall’alto la nostra portata al suo arrivo e poco importa la nostra soddisfazione alla fine della cena, ormai è nel nostro feed e tanto basta. Ecco perché un’arancia che fa l’arancia dentro una pagina pubblicitaria scombina gli assetti cognitivi e s’impone per l’originalità del messaggio. Non dev’essere spruzzata di lacca per baluginare di fronte all’obiettivo (fa tenerezza la nota in piccolo che specifica: l’immagine inserita è solo a scopo illustrativo) ed è accompagnata da un messaggio che indugia pochissimo nella ricercatezza del design, dell’impaginazione a effetto, delle suggestioni derivanti dall’art direction più formale. Qui le parole sono buttate in pagina con un font di sistema, seguendo una gerarchia dei messaggi a sostegno di quello più importante che viene colorato di rosso: «prezzo trasparente», tutto in maiuscolo. Più sotto il prezzo di vendita nei negozi, e a chiudere quello che viene riconosciuto a chi coltiva quell’arancia. Un euro e otto centesimi di differenza è il margine dal produttore al consumatore, quel margine paga tutti i passaggi della filiera, dal campo allo scaffale, fino alla pubblicità che invita a comprare chi «sostiene l’agricoltura». Non ci sono asterischi, incredibile, c’è un Qr-code che rimanda al sito dell’azienda dove viene scritto che «fare la spesa in modo consapevole è un gesto di responsabilità verso un modello alimentare più giusto e sostenibile per tutti». La firma è quella del Presidente di NaturaSì, Fabio Brescacin che non sta neanche su LinkedIn, figurati se Instagram lo riguarda. Forse, credo, è proprio per questo che può permettersi una bellissima brutta pagina come questa. Grazie.