mercoledì 23 novembre 2022
Il gesuita affronta l’origine della «policrisi ecologica» a partire dal vuoto lasciato da Gesù con l’Ascensione
Gaël Giraud

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Simone Paliaga Sarà una questione di stile a consentire di uscire dalla “policrisi ecologica” che colpisce Gaia, la Terra, e permettere agli uomini di comporre dei mondi in comune, di là dai guasti prodotti dalla privatizzazione? Cambiamento climatico, predazione delle risorse, distruzione della biodiversità pretendono una risposta che fino a ora si è tentato di fornire richiamandosi a un’etica deontologica impostata sul senso del dovere e del rispetto ma non sull’essere. E, dalla prima denuncia del Club di Roma ai summit oggi, poco è cambiato. Uscire dall’impasse in cui l’umanità si trova è la sfida accolta da Gaël Giraud, padre gesuita ed economista, dottore di ricerca in matematica applicata e un passato professionale nel mondo della finanza. Autore già di critiche all’“illusione finanziaria” e attualmente direttore di ricerca al CNRS francese e, dal 2021, a capo del programma di giustizia ambientale della Georgetown University di Washington, Giraud, per affrontare la questione, gioca su un tavolo desueto, la teologia politica, che ora, dopo oltre quarant’anni di assenza dal dibattito pubblico, riprende vigore per fare fronte alle dinamiche che stanno portando Gaia al collasso. Per quanto i teologi di malanimo si dedichino oramai alla riflessione politica, Giraud non esita ad affondare mani, pensiero e cuore nel patrimonio teologico cristiano, intrecciandolo con la storia del diritto, l’antropologia, l’economia e la filosofia.

Lo fa in un imponente volume appena pubblicato in Francia e nato dall’elaborazione della tesi in teologia discussa presso il parigino Centre Sèvres di Parigi, l’università della Compagnia di Gesù. Si tratta di Composer un monde en commun (Seuil, pp. 816, euro 27) che ambisce a segnare uno spartiacque, non solo teorico, perché, sulla scia di quanto scrisse il suo maestro Christoph Theobald in Il Cristianesimo come stile, il «teologo deve passare a un discorso autoimplicativo », e non può, quindi, arrestarsi al detto, ma orientarsi a una pratica. Giraud, tuttavia, non cade nel tranello di indirizzare il suo lavoro «all’interno del circolo ermeneutico della fede » iscrivendo la sua «conversazione nel registro tribale della casta dei credenti» ma lo apre alla discussione. E non potrebbe essere diversamente perché in gioco è la vita di Gaia, e dunque di tutti i viventi, anche non umani, di quelli trapassati e di quelli a venire. Questa «teologia politica dell’Antropocene» intende radicare il concetto di comune nelle Scritture, senza complessi di inferiorità nei confronti di qualsivoglia laicismo, per fare fronte all’ampio processo di privatizzazione del vivente e della cultura in atto, che è all’origine della «policrisi ecologica». E il teologo lo fa evitando di cadere nella dimensione del pubblico o del tribale, che priverebbero della possibilità del confronto condiviso e dunque della costruzione di mondi in comune. Delle quattro figure che contribuiscono a dare forma al rapporto dei viventi con la Terra – privato, pubblico, tribale e comune – appunto, Giraud pone al centro quest’ultima, perché antidoto all’ideologia proprietaria predominante con l’imporsi del processo di privatizzazione. Il teologo, però, non si accontenta di dichiarazioni di principio né dei traguardi teorici nella definizione dei commons del premio Nobel Elinor Ostrom o dalle riflessioni di Pierre Dardot e Christian Laval. Ritiene, invece, di muovere da più lontano, dal racconto dell’Ascensione presente nel Vangelo di Luca, che rivela una diversa concezione del potere, non basata sulla presenza del Corpo glorioso ma sulla sua assenza.

«Il ritrarsi di Dio al momento dell’Ascensione – avverte Giraud – ci consente di prendere sul serio il luogo vuoto del potere che questa “perdita” lascia alla nostra libertà. Allora si apre la possibilità di una storia: quella dell’autonomia teologico-politica di un’umanità chiamata a sviluppare le figure che consentono di simbolizzare il rapporto dei viventi con il corpo di Gaia». Il trono lasciato vuoto al momento dell’Ascensione sgrava quindi l’uomo dalla sovranità intesa come presenza, presenza di qualcuno che impone il “daffarsi”, e la cui migliore rappresentazione politica sono le monarchie assolute del Settecento. Al tempo stesso questa opportunità non apre agli uomini cammini individualistici sotto la pressione dell’ideologia proprietaria. « La libertà umana, infatti, è prima di tutto – precisa Giraud – la capacità collettiva e personale di partecipare alle cose comuni, di contribuire all’invenzione delle figure dogmatiche, tecniche e pratiche dell’entre- nous» , di quella dimensione «tra-noi”», «in mezzo a noi» (Luca 17, 2021), premessa indispensabile alla costruzione di mondi costruiti in comune. L’entre- nous non è un fatto di natura, ma è conseguenza del dono dello Spirito avvenuto con la Pentecoste e solo esso rende possibile la libera costruzione di comuni, costituendone la premessa in quanto «ci precede»: «L’entre- nous è quanto “ci” avviene liberamente in comune» e pone la condizione umana in quanto esperienza di essere parte costitutiva di Gaia, in relazione con il mondo e con gli antenati, al di qua delle lingue, delle culture, e delle configurazioni che gli uomini assegnano al corpo sociale, che sorgono solo successivamente. Se senza l’entre- nous, nessun comune sarebbe possibile, al tempo stesso le pratiche del comune contribuiscono a rigenerarlo ridandogli vigore e forza.

L’interpretazione dell’Ascensione e delle Pentecoste elaborata da Gaël Giraud nel corso di intense pagine conferisce alle Scritture «uno statuto originale, quello di un comune ermeneutico, vale a dire uno scritto o una parola lasciati alla ricezione plurale realizzata negli atti dei destinatari». La parabola viva, che si contrappone al linguaggio mitico donato una volta per sempre al gruppo, mette al lavoro i suoi interpreti e li spinge a tradurre nell’idioma di ciascuno il suo messaggio creando così «comunalità», quella di tutti gli ermeneuti che, attraverso le generazioni e le culture, discernono insieme il senso delle parole. «La parabola viva – spiega il teologo – è un comune che, nel processo stesso della sua ricezione, alimenta un legame pratico tra gli interpreti e il suo divenire è sospeso all’interpretazione attraverso gli atti che non è altro che la partecipazione di ciascuna e di ciascuno di noi ai comuni dei nostri corpi sociali ». Allora i viventi saranno lasciati alla propria libertà corale per inventare delle figure a geometria variabile che, nel corpo di Gaia, fungeranno da modalità di legame tra i viventi, al mondo, al passato e all’avvenire. Nasceranno così molte varianti (almeno duecentoquaranta, scoprirà chi avrà la pazienza di leggere il volume) a partire dalla stessa melodia dell’entre nous, generando un’esperienza simile a quella offerta dalla musica barocca di Johann Sebastian Bach nelle sue Variazioni Goldberg. Così inteso, lo schema del comune permette di comprendere una fraternità non fondata su un rapporto mitizzante alle Scritture ma su un’interpretazione concreta delle stesse. La storia del mistero politico che è la santità, che Giraud sviluppa attraverso una lettura “apocalittica” di sant’Ireneo di Lione, sarebbe allora questa «elaborazione continua – d’ordine tecnologico. spirituale, morale, politico, istituzionale, giuridico, simbolico, economico, sociale… senza che questi differenti registri debbano confondersi – delle figure del corpo sociale per mezzo delle quali non siamo invitati a sedere con il Resuscitato sul trono del Padre, perché il luogo del potere è vuoto in quanto destinato, esso stesso, a diventare comune». Ecco perché solo attraverso la produzione di queste figure è possibile assumere «lo stile degli stili: l’esperienza della generazione felice sempre possibile, nel mistero dell’entre nous, dell’“in mezzo a noi”, di stili di vita attraverso i quali componiamo dei mondi ed, eventualmente, un mondo comune».

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