giovedì 30 marzo 2023
I luoghi fisici sono legati alla conoscenza di ciò che siamo stati e che val la pena di riscoprire
Serve riflettere sulla cancel culture per recuperare il senso della memoria

Reuters

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«La geografia non è altro che la storia nello spazio, così come la storia è la geografia nel tempo». Questo scriveva Élisée Reclus, geografo sovversivo francese di metà Ottocento, dalle grandi intuizioni epistemologiche, più volte esiliato per le sue idee anarchiche. Significa che il paesaggio intorno a noi ci dice molto, se non tutto, di ciò che è avvenuto nella storia in quell’area geografica; gli elementi fisici sono strettamente legati a quelli sociali e antropologici.

In fondo, i luoghi sono la risultante di chi li ha vissuti e di chi li vive. Un deserto racconta di popolazioni nomadi che non hanno costruito abitazioni nella regione, una città isolata probabilmente testimonia di scambi commerciali, linguistici e culturali; la posizione di un luogo di culto rispetto al palazzo del governo, del mercato rispetto alle abitazioni sono indizi per leggere come una civiltà concepisce sé stessa e il ruolo della popolazione rispetto alle istituzioni. Se oggi arrivasse sulla terra un marziano, potrebbe farsi un’idea delle economie e delle società attraversando Paesi e continenti, semplicemente guardandosi attorno. Ma non è solo una questione di tracce del passato. Immanuel Kant sosteneva addirittura che «è la geografia a fondare la storia», perché la nostra conoscenza si basa sull’esperienza percettiva, fisica, della natura e della Terra, la cui descrizione, che è compito della geografia, sta quindi alla base della nostra conoscenza del mondo. Insomma, i luoghi fisici sono legati alla conoscenza, alla comprensione e alla memoria. Vediamo, annusiamo e tocchiamo il mondo, lo descriviamo, cioè lo rappresentiamo, e sulla base di ciò comprendiamo tutto il resto, correlando e contestualizzando le nostre conoscenze pregresse. Ne consegue che ciò che c’è nel mondo (gli elementi del paesaggio attorno a noi) influenza il nostro modo di pensare e di comportarci. Per cui agire sull’estetica dei luoghi è un atto politico. Non è difficile trovare esempi di questa teoria. Il 19 febbraio del 1937, l’esercito fascista compì una strage di civili ad Addis Abeba, in Etiopia. Si trattava di una rappresaglia per l’attentato al viceré Rodolfo Graziani, avvenuto durante una manifestazione pubblica. La vendetta fu tremenda: ventimila civili uccisi. In Etiopia quel massacro viene commemorato ogni anno e un obelisco, in una piazza che porta il nome di quella data in etiope, Yekatit 12, lo ricorda. Viceversa, in Italia questo evento non è certamente noto a tutti e la brutalità del passato coloniale del nostro Paese è ben poco presente nella coscienza collettiva. Se è vero che non vi sono più monumenti o luoghi intitolati a Mussolini o a gerarchi del partito, è altrettanto vero che l’Italia pullula di vie e piazze con nomi esotici quali Amaba Aradan, Massaua, Adua, Tripoli, che non sono un tributo alla bellezza dell’Africa, bensì le tracce celebrative del colonialismo fascista, create proprio negli anni in cui nasceva l’Impero, e sopravvissute fino a noi. Lo scorso autunno il Consiglio comunale di Roma ha approvato una mozione che, oltre a istituire una giornata della memoria delle vittime del colonialismo italiano, stabilisce di aggiungere, sotto i cartelli dei nomi di vie e piazze legati a quel periodo, una brevissima spiegazione, che permetta a tutti di contestualizzarli. Oltre a Roma, anche Milano, Bologna e Torino hanno presentato mozioni simili, per apporre targhe o QR code che spieghino e inquadrino quelle scelte odonomastiche, storicamente definite. Invece di cancellare i nomi, sostituendoli con altri simboli, oggi accettabili, si sceglie di lasciarli e di spiegarne la genesi.

In altri casi, storicamente si è preferito togliere dalla vista pubblica i simboli di un passato che non risultava più ammissibile o che si voleva narrare in modo nuovo, o ancora che si voleva condannare all’oblio. Dalla profanazione delle tombe, con la sparizione delle salme di faraoni come Akhenaton, alla deturpazione di statue dei defunti, come Sargon in Mesopotamia, dalla sostituzione dei nomi di sovrani sul Codice di Hammurabi, alla damnatio memoriae del diritto romano, in cui non solo le effigi, ma anche le opere del condannato venivano distrutte, passando per l’iconoclastia cristiana prima e musulmana poi, fino al processo di destalinizzazione voluto da Chrušcëv: per motivi e in modi assai diversi la «cancellazione» è un’arma politica.

Non c’è da stupirsi quindi che oggi si parli di cancel culture in tutte le occasioni, soprattutto polemiche. È un’etichetta orecchiabile, che però viene sistematicamente travisata e sfruttata ai fini del dibattito politico di alto e basso livello, per difese ideologiche spesso intransigenti. In realtà, non tutto è cancel culture ciò che viene definito così, dal momento che filologicamente si tratta di un movimento sorto attorno al 2008 da gruppi di protesta organizzati sui social network, in una comunità chiamata Black Twitter, attiva sui temi del razzismo e della discriminazione delle minoranze. Dunque qualcosa di molto specifico, con un intento culturale, politico e sociale.
Ma la memoria c’entra comunque, in quanto elemento cardine della cultura condivisa. La memoria si costituisce di elementi individuali e collettivi, interiori ed esteriori, connessioni di immagini, parole e luoghi; essa è in grado di influenzare la cultura di un gruppo sociale e l’identità individuale che ognuno di noi percepisce dentro di sé. La cosa curiosa è che la memoria risiede, in larga misura, anche fuori da noi, cioè nelle cose, nei luoghi, che diventano attivatori di pensieri, simboli, idee e visioni del mondo. Noi trasmettiamo la memoria attraverso racconti che trovano spazio in luoghi fisici e in forme estetiche: una stele, una colonna, un palazzo, un tempio, un affresco, un monumento, una piazza. Luoghi che diventano “sacri”, poiché diventano l’oggetto stesso della memoria, anzi della commemorazione. Lì colpisce la nemesi della cancel culture: i luoghi, le parole, i simboli, le interpretazioni. E prima di derubricarla ad atto di ignoranza, faremmo bene a riflettere su di essa.

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