mercoledì 10 maggio 2023
L'azienda marchigiana si occupa dei test di qualità di prodotti diversi e mentre cresce investe sempre di più sul proprio territorio
La lezione di Loccioni: l’impresa che ha futuro è quella che pensa

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«Guardi, noi siamo un’impresa non un’azienda. Siamo una comunità che lavora con l’obiettivo di produrre ricchezza per tutti e non si tratta solo di ricchezza materiale. Certo, dobbiamo chiudere bene ogni nostro conto economico, ma anche quelli umani e ambientali». Enrico Loccioni, amministratore delegato della Loccioni di Angeli di Rosora (Ancona), sta viaggiando da Cesena a Bologna e al telefono è come un fiume in piena. Ma è una “buona piena” quella che straripa dalle parole del “contadino-elettricista” come lui stesso si definisce.

Tutto inizia 55 anni fa. Enrico è giovane e pieno di belle speranze, incarna quell’imprenditorialità marchigiana forte e contadina le cui radici affondano nella cultura benedettina. E proprio da lì, probabilmente, prende corpo il tratto saliente della Loccioni di oggi: la cultura del lavoro e l’attenzione alla globalità che non si limita a quella per il profitto. Enrico costruisce la sua impresa con la moglie Graziella, superando presto il concetto di azienda manifatturiera per arrivare a sviluppare progetti su misura per il cliente. Loccioni progetta e produce sistemi ad alta tecnologia di collaudo e controllo qualità. Gli elettrodomestici che utilizziamo, le auto che guidiamo, gli aerei o i treni che ci trasportano, l’energia che utilizziamo, l’aria che respiriamo, i farmaci e il cibo per la nostra salute, spesso vengono testati con sistemi Loccioni. Ma l’intraprendenza del fondatore va ben oltre. «Il mio modello – dice adesso – è l’Olivetti di Adriano. La nostra idea è che le persone siano il valore più grande. La Loccioni interpreta e sviluppa un modello di impresa che pensa». E non si tratta di un’utopia, ma di qualcosa di molto concreto.

«Per migliorare – spiega Loccioni sempre andando verso Bologna – occorre misurare e quindi conoscere. Solo così possiamo contribuire ad accrescere qualità, sicurezza e sostenibilità dei prodotti che si utilizzano ogni giorno e dei processi che servono per ottenerli». A capirlo ormai sono in molti. Basta sapere che si rivolgono ai sistemi di controllo Loccioni alcuni dei più grandi nomi industriali internazionali nei settori della mobilità, dell’energia, dell’ambiente e del benessere della persona: tra i principali Bosch, Cleveland Clinic, Daimler, Enel, E.On, Ferrari, General Electric, GE Avio, Leonardo, Mayo Clinic, Northvolt, RFI, Samsung Medical Center, Toyota.

È qualcosa che, dopo i primi 20 anni finanziati con il debito, ha iniziato a dare profitti. «Che noi reimpieghiamo nello sviluppo della nostra attività», precisa subito Enrico. Per capire, basta sapere che l’ultimo fatturato consolidato è pari a 120 milioni di euro, il 90% dall’estero.

Al centro sempre le persone. Dentro e fuori l’impresa. Nel primo caso, si tratta di 450 collaboratori (nessuno lì dentro vuole essere chiamato dipendente), il 50% laureati, età media 32 anni. Nel secondo caso, si può parlare di un’impresa che si diffonde nel territorio. E che lo accoglie. Ogni anno circa mille studenti sono ospitati per le attività di orientamento, mentre sono 8mila i visitatori.

Poi c’è quella che i manuali chiamano responsabilità sociale d’impresa. Che per la Loccioni significa tante cose. Come la “Scuola Loccioni”, che forma gli studenti e i collaboratori di domani, oppure il laboratorio di innovazione nella cura realizzato con l’Azienda Ospedaliero Universitaria delle Marche per lo sviluppo di soluzioni tecnologiche per migliorare la qualità dei processi e degli ambienti della cura. Un’iniziativa che ha creato Apoteca, il primo robot al mondo per la preparazione automatica e personalizzata dei farmaci. Poi c’è la “Leaf Community”: il campus che è una smart-grid elettrica a impatto zero e zero gas, in cui si abita in appartamenti e si lavora in edifici efficienti ed energeticamente autonomi, alimentati dal sole, dall’acqua e dalla terra, gestendo ed accumulando i flussi energetici. Senza contare l’iniziativa “2 km di futuro®”, un progetto di adozione del fiume Esino, per mettere in sicurezza e restituire alla comunità un tratto di area fluviale accanto alle sedi Loccioni che ha consentito anche la realizzazione di un ponte pedonale disegnato dall’architetto Thomas Herzog finito alla Biennale di Venezia 2018. C’è poi la “Valle di San Clemente” che ha l’obiettivo di innovare il territorio rurale e creare lavoro mettendo insieme peculiarità artistiche, storiche, enogastronomiche agricole e paesaggistiche.

L’impresa che pensa, dunque. E che fa. Collezionando successi, non solo economici ma globali. Un’impresa che rappresenta quel segreto italiano che un omonimo libro curato da Isvi (Istituto per i valori d’impresa) cerca di raccontare e interpretare. E che Enrico Loccioni spiega benissimo in poche parole: «Dobbiamo partire dal concetto di innovazione come comportamento. Non basta occuparsi di tecnologia per essere innovativi. La capacità di risolvere i problemi è innovazione. Ed è qui il segreto italiano: noi siamo capaci di risolvere problemi. È questo che il mondo ci riconosce. Siamo molto flessibili, a volte troppo, e anche un po’ disorganizzati ma siamo vincenti perché italiani» Anche quando ci confrontiamo, spiega Loccioni, con la concorrenza più accesa oppure con altri Paesi: «Lavoriamo molto con i tedeschi: loro hanno l’organizzazione, ma noi la creatività e l’immaginazione».

Poi, certo, c’è la complessità spesso problematica di un mondo che pare andare al contrario. «Vero – commenta –, ma d’altra parte tutti viviamo nella complessità. L’importante è non essere spettatori e basta. L’importante è essere attori. Riuscire a guardare un po’ più avanti, sempre cercando di mettere in sicurezza l’impresa. Guardare alla produzione per lo sviluppo integrale e non solo alla possibilità di avere finanziamenti. Cercare sempre di fare cose nuove: questo è un altro segreto italiano». E guardare agli altri. «Vede – dice ancora Loccioni mentre Bologna si avvicina –, la nostra impresa è profondamente italiana perché accoglie, si apre, non si chiude. Guardiamo con fiducia agli altri. E sappiamo di essere di passaggio: il mondo non è nostro. Il mondo è di tutti, soprattutto di quelli che verranno dopo di noi: per questo dobbiamo lasciarlo un po’ meglio di come l’abbiamo trovato».

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