giovedì 27 aprile 2023
In un libro di Vittorio Coda emerge tutta la tenacia e il legame con i territori delle nostre aziende
Non solo bellezza: le nostre imprese custodi di un «segreto» tutto italiano
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Se non fosse per A. Reza Arabnia, il Cavaliere del Lavoro di origini persiane che ha promosso l’opera perché, come dice lui, si sente «privilegiato» quando viene considerato un imprenditore italiano, l’ultimo libro di Vittorio Coda su Il Segreto Italiano parrebbe una provocazione. Del resto, vi è un che di provocatorio nel discettare su «tutta la bellezza che c’è» – che poi è il sottotitolo – quando si deve intitolare un capitolo “La gestione del caos” e si avvia la riflessione riconoscendo che questo Paese ha «un sistema anti-impresa con una burocrazia che non garantisce una conduzione corretta delle attività, ma piuttosto esercita un potere paralizzante», che è caratterizzato da «un sistema giudiziario macchinoso che spesso va contro chi ha subito il danno, scoraggiando la difesa dei propri diritti con i suoi tempi lunghi ed estremamente incerti», che il territorio del Bel Paese «non ha significative risorse naturali né tantomeno locomotive statali capaci di trainare le filiere» e via dicendo. L’impegno del presidente del Comitato scientifico dell’Isvi (Istituto per i Valori d’Impresa) è stato quello di esplorare le varie discipline per trovare le radici del «segreto italiano», che secondo Coda consiste innanzi tutto nel combinarsi di unicità e sistema.

Si tratta di uno studio sistematico sulla nostra vocazione imprenditoriale a risalire la corrente come fanno i salmoni. «La sorprendente constatazione dell’esistenza di imprese nate e cresciute in un contesto ostile all’intraprendere e che, ciò nonostante, in molteplici settori produttivi pongono l’Italia nelle primissime posizioni delle graduatorie europee e mondiali, suscita domande su come sia possibile il loro successo. In particolare, ci si domanda da dove vengono la tenacia, la pazienza, la spinta motivazionale necessarie per superare ostacoli che consumano una grande quantità di energia imprenditoriale e manageriale; il plus di capacità di innovazione necessario per essere competitivi in presenza di fattori ostacolanti che impattano sensibilmente sui costi del lavoro, dei finanziamenti, dei trasporti, dell’energia; sui tempi e sui costi di realizzazione degli investimenti; sui rischi, strategici e operativi, inerenti ai business; la forza morale di rimanere fedeli a una scelta di campo di fare impresa in modo responsabile, con rispetto delle persone, delle regole, dell’ambiente» leggiamo nell’opera. Secondo il curatore, «l’ipotesi che è andata via via prendendo corpo nel corso della ricerca è che, per rispondere a queste domande, occorre indagare a fondo i caratteri identitari che differenziano queste imprese da quelle di altri Paesi, nonché il loro combinarsi con caratteri identitari dell’Italia e dei suoi territori. Sistema Paese e sistema delle imprese si appartengono l’un l’altro».

Il libro mette a fuoco «la faccia luminosa del pianeta dell’impresa italiana» attraverso le cosiddette “imprese del segreto”, quelle che nella letteratura sono denominate «multinazionali tascabili» o imprese del «quarto capitalismo ». Un fenomeno di assoluto rilievo e, dell’andamento dell’economia italiana nel periodo 1992-2016, in netta controtendenza, perché hanno aumentato i loro fatturati grazie agli investimenti per sostenere la produttività e sviluppare i mercati esteri, mentre l’economia del Paese ha sofferto per la stagnazione della produttività del lavoro. Trattasi di aziende manifatturiere a controllo familiare di varie dimensioni: il loro fatturato varia da poche decine di milioni a migliaia di milioni di euro. In prevalenza, però, sono medie imprese (o medio-piccole o medio-grandi). Anche la loro età varia: molte sono di prima o seconda generazione (nate dunque negli anni Settanta, Ottanta o Novanta), ma non poche sono attive da tre o più generazioni (con origine nel secondo dopoguerra o fra le due guerre mondiali). Appartengono inoltre ai più diversi settori (metalmeccanico, automobilistico, siderurgico, chimico, farmaceutico, tessile, dell’abbigliamento, calzaturiero, dell’arredamento, agricolo-alimentare, dolciario ecc.). Producono sia beni di consumo o di uso durevole, sia, in gran numero, beni strumentali (macchine utensili e impianti industriali) o beni intermedi/componenti (componenti per l’automotive, forniture per l’edilizia, imballaggi, accessori per macchinari e impianti industriali e così via). Sono presenti infine in tutte le regioni del Paese, ma con densità più elevata in alcune di esse: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte, Marche. Hanno tutte legami forti con una famiglia e con un territorio e, quale che sia l’epoca in cui sono nate, esse sono andate via via assumendo la fisionomia di imprese medie e medio-grandi estendendo progressivamente il raggio d’azione, in ciò favorite dalla globalizzazione dell’economia.

Forse uno degli studi che più si avvicina a svelare il “segreto” è proprio l’Ecosistema di Giacomo Balduzzi e Fabio Rugge, che nel libro curato da Coda ragionano sulle traiettorie del segreto italiano e individuano subito dei fenomeni contraddittori, come l’intervento statale, «difficilmente inquadrabile in un “modello” chiaramente definito di governo dell’economia». Osservazione di non secondaria importanza se si considera che i modelli di sviluppo capitalistico che si affermano nel Paese sono più d’uno e anche lo Stato spesso non si è comportato “tipicamente”. Questa atipicità può essere una conseguenza del contesto o di altri fattori, ma è inconfutabile. Ad esempio, l’affermazione dell’industria manifatturiera avviene sulle radici rurali del Paese che però non sono sempre le stesse. Piccola famiglia contadina, latifondo, mezzadria si intrecciano. Anche il successo delle esportazioni italiane in svariati mercati esteri non può essere compreso senza considerare fattori atipici, come la migrazione. Un altro fattore decisivo per determinare il “segreto italiano” sono i territori. Come dice Vera Zamagni la caratteristica più marcata dell’economia italiana è quella di essere «un capitalismo di mercato con una forte specializzazione in centinaia di “nicchie” in cui le medie imprese italiane sono leader a livello internazionale» e «protagonisti di queste nicchie sono spesso i distretti industriali».

Naturalmente, è difficile abbracciare tutti i fattori del segreto con una sola analisi e anche Balduzzi e Regge concludono che i fattori più significativi per descriverlo sono «il rapporto tra grande e piccola impresa, che non ha sempre seguito dinamiche oppositive, ma ha visto anche prodursi dinamiche win-win, di collaborazione e di generazione di sviluppo; la presenza di aree territoriali di compensazione tra mondo industriale e mondo rurale, con un capitale umano «anfibio», capace cioè di integrare economia di fabbrica ed economia rurale; alcuni effetti imprevisti e paradossali dell’intervento pubblico, le cui carenze hanno comportato (cioè necessitato e permesso) l’emersione (o forse la selezione naturale?) di una imprenditorialità capace di grandi exploit; un posizionamento internazionale, sia istituzionale sia culturale, “aperto”, che – almeno a partire dal crollo del fascismo – non è gravato dall’impegno di una politica di potenza e trae beneficio dal fenomeno migratorio; una dinamica di relazioni industriali che, essendo scarsamente regolata da meccanismi istituzionali (sottoistituzionalizzazione), registra sia una forte conflittualità classista sia forme spontanee di collaborazione responsabile, spesso sostenute dal tessuto comunitario e dalle identità culturali dei sistemi locali». Tratti che disegnano un segreto paradossale, che si esplica nel tenere insieme gli opposti: grande e piccola impresa, città e campagna, conflitto e cooperazione, dirigismo statale e sviluppo spontaneo, locale e globale. «Se visto in senso diacronico, questo paradosso si esprime, nel tempo e nello spazio, nella coincidenza tra continuità e discontinuità, fra tradizione e innovazione» concludono gli analisti.

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