Volkswagen a rischio:
Ue in bilico nella guerra dei chip

Nel pieno del braccio di ferro su semiconduttori e terre rare tra Usa e Cina, la crisi legata alle forniture di Nexperia potrebbe avere ripercussioni su molti comparti industriali. «Fuori portata gli obiettivi dell’Unione nel settore»
October 24, 2025
Volkswagen a rischio:
Ue in bilico nella guerra dei chip
La fabbrica della Volkswagen a Wolfsburg in un'immagine d'archivio
In una grigia e fredda Wolfsburg, cuore dell’impero tedesco Volkswagen, le linee della Golf potrebbero fermarsi già mercoledì. Niente scioperi o blackout energetici: lo stop della produzione potrebbe arrivare per un componente minuscolo e dal costo di pochi centesimi, il chip. La carenza di semiconduttori prodotti dalla olandese Nexperia – di proprietà del gruppo cinese Wingtech, ma “nazionalizzata” nei giorni scorsi dal governo dell’Aja – rischia di bloccare la produzione dell’auto simbolo del made in Germany, anche se per ora Volkswagen evita di confermare. È l’effetto collaterale della guerra globale dei chip che da tempo si combatte soprattutto tra Washington e Pechino e che oggi colpisce il cuore industriale dell’Europa. Dopo la Golf secondo indiscrezioni potrebbe toccare alla Tiguan, e il contagio estendersi per investire altri settori produttivi oltre a quello dell’automotive.
Tutto nasce dal braccio di ferro che contrappone Stati Uniti e Cina nel controllo delle tecnologie avanzate, in particolare quelle legate allo sviluppo dell’intelligenza artificiale e al commercio delle terre rare. Ma questa volta la scintilla è europea. Dopo la decisione dei giorni scorsi del governo olandese di assumere il controllo diretto di Nexperia — per limitarne l’influenza cinese — Pechino ha reagito sospendendo l’export dei chip confezionati negli impianti cinesi del gruppo. Il risultato è un effetto domino: dalle catene di montaggio di Wolfsburg fino ai laboratori della difesa europea. Secondo un’inchiesta di Handelsblatt, il 95% delle aziende europee del settore dell’ingegneria meccanica utilizza chip Nexperia di provenienza cinese, nemmeno troppo avanzati come quelli utilizzati per l’IA al centro dello scontro Usa-Cina. Nella tecnologia medica la quota scende “solo” all’86%, nell’aerospazio e nella difesa le percentuali restano sopra il 90%. L’allarme, insomma, rischia di diventare sistemico, con blocchi diffusi della produzione.
La crisi europea è un’eco diretta della contesa tra le due superpotenze globali. Da un lato gli Stati Uniti, che continuano a stringere le maglie sui chip avanzati destinati alla Cina. Dall’altro, Pechino, che risponde limitando l’export di materiali critici e bloccando forniture strategiche come quelle di Nexperia. Gli Stati Uniti, dopo il ritorno di Trump alla Casa Bianca, hanno rafforzato la linea dura di Biden: controllo delle esportazioni, tasse del 15% sui chip avanzati H20 venduti dal colosso del tech americano Nvidia alla Cina, nuove norme sulla “50% rule” che estendono i divieti a migliaia di aziende affiliate. Washington vuole mantenere Pechino ancorata all’ecosistema americano dell’innovazione, ma con forti restrizioni.
Pechino, dal canto suo, ha cominciato a giocare la carta delle terre rare, con limitazioni sui minerali critici indispensabili per produrre microchip, turbine eoliche, veicoli elettrici e sistemi d’arma. Ogni motore elettrico, ogni turbina, ogni radar di precisione contiene pochi grammi di terre rare, ma senza quei metalli il sistema non funziona. Qui la Cina domina con un controllo verticale: estrae, raffina e trasforma quasi l’intera catena di valore. Il mercato dei magneti permanenti al neodimio, essenziali per i motori dei veicoli elettrici, vale circa 30 miliardi di dollari l’anno, e Pechino ne controlla tra l’85 e il 94%. Un blocco anche parziale delle esportazioni, come minacciato nelle ultime settimane, manderebbe in tilt segmenti cruciali dell’industria occidentale, compresa quella che rende possibile la produzione dei chip. Il paradosso è che il giro d’affari delle terre rare resta relativamente piccolo, ma il potere geopolitico che sprigiona è enorme: pochi attori, altissima concentrazione, controllo totale dei flussi.
L’Unione Europea, da parte sua, ha fissato l’obiettivo ambizioso di produrre entro il 2030 il 20% dei semiconduttori mondiali. Ma la realtà è ancora fatta di frammentazioni e lentezze. Il Chips Act europeo entrato in vigore due anni fa prevede investimenti pari a 43 miliardi di euro tra fondi pubblici e privati per sostenere lo sviluppo del settore, riducendo la dipendenza dall’esterno, ma sconta difficoltà e ritardi. La Corte dei conti dell’Ue ha definito «scollegato dalla realtà» gli obiettivi produttivi Ue sui chip, e i fatti di questi giorni sembrano darle ragione: basta un attrito tra Olanda e Cina per mettere a rischio produzioni importanti come quelle dell’auto in Germania. Per ora Volkswagen prova a rassicurare parlando di un possibile «fornitore alternativo che potrebbe compensare la mancata fornitura dei semiconduttori Nexperia», soluzione che riuscirebbe a scongiurare le ipotizzate interruzioni produttive della prossima settimana. Ma è l’intera industria europea a scoprirsi improvvisamente di nuovo fragile, dipendente da decisioni sugli approvvigionamenti che oggi vengono prese spesso altrove.

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