giovedì 14 gennaio 2010
«Lo stabilimento non è in grado di competere». Lo ha ribadito l'Ad di Fiat parlando all'Automotive News World Congress a Detroit. La Fiat ha le responsabilità di un'azienda, non di governare il Paese».
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Termini Imerese «non è in grado di competere»: la decisione di chiuderlo «è irreversibile». L'amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, dal palco dell'Automotive News World Congress, ribadisce la posizione del Lingotto e precisa: la Fiat è un'azienda e ha le responsabilità di un'azienda. Non ha le responsabilità di un governo, è il governo che deve governare. «Siamo il maggiore investitore in Italia, ma non abbiamo la responsabilità di governare il paese».La precisazione è arrivata dopo che una voce di protesta di era alzata dalla platea del convegno affermando: «Fiat-Chrysler una vergogna» per la vertenza dello stabilimento siciliano. Una piccola protesta che interrompe l'intervento di Marchionne per alcuni istanti. Un secondo piccolo episodio avviene al termine del discorso dell'amministratore delegato di Fiat, quando una ragazza sale sul palco e accusa Chrysler agitando lo spettro della morte della madre. Ambedue sono stati allontanati.Ma Marchionne, oltre alle proteste, incassa gli applausi e le risate della platea. E anche l'appoggio del sindacato dei metalmeccanici americani, lo United Auto Worker: mentre si apprestava a lasciare la sala, l'ad di Chrysler è stato avvicinato da quattro persone con indosso un giubbotto del Uaw e che, a nome dell'intero sindacato, lo hanno ringraziato per il lavoro che sta svolgendo per il rilancio di Chrysler.Nel corso del suo intervento Marchionne si sofferma sul tema della sovracapacità produttiva: «A livello globale la nostra industria ha la capacità di produrre circa 94 milioni di auto all'anno, circa 30 milioni in più di quante se ne vendono. Un terzo di questo eccesso di capacità si trova in Europa, dove il settore automobilistico resta virtualmente l'unico settore a non aver ancora razionalizzato la produzione. L'Europa lo scorso anno ha utilizzato il 75% della propria capacità, un numero che potrebbe scendere al 65% quest'anno. La ragione è semplice - spiega Marchionne -: i produttori europei semplicemente non chiudono gli impianti. E questo perchè ricevono spesso fondi per non farlo. L'ultima volta che un impianto in Germania è stato chiuso la Seconda Guerra Mondiale doveva ancora iniziare».I governi europei - spiega - sembrano voler fare «del settore automobilistico l'ultimo bastione del nazionalismo economico del continente». E i motivi alla base di questo atteggiamento potrebbero essere anche «ammirevoli. Tutelare l'occupazione è il primo: è un imperativo di ogni società assicurare che i bisogni umani siano soddisfatti» ma non si possono forzare le industrie a farlo. E inoltre - mette inevidenza - le aziende «possono farlo solo in modo artificiale». «Un'altra ragione ugualmente comprensibile è l'orgoglio: l'orgoglio nazionale può essere motivante e virtuoso». Ma, citando Aristotele, Marchionne afferma: «La differenza fra orgoglio e vanità è che una merita gli onori l'altra li riceve. Le società saranno motivo di orgoglio se saranno in grado di stare in piedi sulle loro gambe e competere».Secondo Marchionne la crisi offre all'industria automobilistica la possibilità di cambiare e ristrutturarsi.«I segnali di una ripresa macroeconomica, di una stabilizzazione dei redditi e di un ritorno della fiducia dei consumatori sono i benvenuti. Ma la ripresa, Karl Marx mi scusi, è l'oppio delle industrie disfunzionali». Tutto dipenderà dalla scelte che verranno prese: «Possiamo scegliere di diventare un'industria indipendente, forte e in grado di sopravvivere oppure - precisa Marchionne - decidere di adagiarci sulla ripresa mantenendo i nostri profondi e insostenibili difetti strutturali». «Una crisi che non si traduce in cambiamenti fondamentali, sarà stata senza senso. Questo è il pericolo del momento: la crisi ci ha portato a prendere la strada della ristrutturazione e delle riforme. E se continueremo su questa, sono sicuro che questa strada sarà anche quella della rinascita».
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