martedì 17 giugno 2025
Il tasso di occupazione di chi ha un titolo non è mai stato così alto negli ultimi dieci anni, soprattutto a 12 mesi dal conseguimento: il 78% lavora subito
Sempre più laureati richiesti dalla aziende

Sempre più laureati richiesti dalla aziende - Imagoeconomica

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Migliora la situazione dei laureati italiani. Sono sempre più richiesti dal mercato interno. Gli stipendi sono in leggera crescita, anche se continua la "fuga" all'estero. Mentre resta il divario di genere, soprattutto nelle materie Stem-Scienze, tecnologia, ingegneria e matematica. Lo rileva il Rapporto AlmaLaurea 2025 sulla Condizione occupazionale dei laureati. Oltre la metà delle persone che ottiene un titolo di studio inoltre è donna, ma sono ancora bassi i numeri di laureate in discipline scientifiche. Il tasso di occupazione di chi ha un titolo non è mai stato così alto negli ultimi dieci anni, soprattutto a 12 mesi dal conseguimento. È pari al 78,6% sia tra i laureati di primo livello sia tra quelli di secondo livello (+4,5 e +2,9 punti percentuali rispetto al 2023). A cinque anni dalla laurea invece il tasso di occupazione registra variazioni contenute, mantenendosi su livelli elevati e pari ad almeno il 90%. Le forme di lavoro più diffuse, tra i laureati occupati a un anno dal titolo, sono i contratti alle dipendenze a tempo indeterminato (39,5% tra gli occupati di primo livello e 29,8% tra quelli di secondo livello), i contratti a tempo determinato (28,0% e 23,6%, rispettivamente) e i contratti formativi (15,3% e 22,3%, rispettivamente). Il Rapporto evidenzia come sono aumentati i contratti a tempo indeterminato e anche gli stipendi. Per i primi, rispetto alla rilevazione del 2023, +4,6 punti percentuali per i laureati di primo livello e +3,3 punti per quelli di secondo livello. Nell'ultimo anno le retribuzioni mensili nette figurano in crescita. A un anno dal titolo, la retribuzione mensile netta è, in media, pari a 1.492 euro per i laureati di primo livello e a 1.488 euro per i laureati di secondo livello, in aumento, in termini reali, del 6,9% per i laureati di primo livello e del 3,1% per quelli di secondo livello rispetto al 2023. Se oltre la metà dei laureati è donna sono ancora poche nelle discipline scientifiche. Nel 2024 le laureate donne sono state il 59,9%, quota che risulta stabile negli ultimi dieci anni, ma sempre nello stesso anno le donne rappresentano il 41,1% dei laureati nelle discipline Stem, quota che è rimasta ferma dal 2014. Chi consegue la laurea, per la maggior parte dei casi, proviene dai licei: il 73,0%, in particolare da quelli scientifici, linguistici e classici (rispettivamente 37,5%, 11,9% e 11,7%). Segue il diploma tecnico, che riguarda il 19,7% dei laureati, mentre è del tutto marginale il diploma professionale (3,3%). Infine rimane il fenomeno della mobilità per ragioni di studio, che è in aumento e riguarda prevalentemente chi dal Mezzogiorno si sposta al Centro-Nord. Il 28,7% dei laureati che ha conseguito il diploma al Mezzogiorno ha scelto un ateneo di una ripartizione geografica diversa (quota, tra l'altro, in costante aumento, era il 23,2% nel 2014), rispetto al 14,3% di chi ha conseguito il diploma al Centro e al 4,3% di chi ha conseguito il diploma al Nord.

Lauree Stem: si riduce il divario di genere

Sempre secondo il Rapporto di Almalaurea tra i laureati del 2023, dove è nettamente più elevata la presenza della componente femminile (60%), la quota delle donne che si laureano in corso è pari al 64% (è 57,9% per gli uomini) con un voto medio di laurea uguale a 104,8 su 110 (è 102,9 per gli uomini). In ogni caso, le donne ottengono voti di laurea superiori agli uomini praticamente in
tutti i gruppi disciplinari, a eccezione di quello letterario-umanistico. Le donne si iscrivono all’Università spinte da forti motivazioni culturali (30,6% rispetto al 27,6% degli uomini) e svolgono un buon numero di tirocini e stage riconosciuti dal proprio corso di laurea (64,5% delle donne rispetto al 54,9% degli uomini). Le laureate inoltre provengono in misura maggiore da contesti familiari meno favoriti sia dal punto di vista culturale sia socio-economico. Così il 28,8% delle donne ha almeno un genitore laureato rispetto al 35,2% degli uomini. Peraltro, le donne sono meno coinvolte dal fenomeno dell’ereditarietà del titolo di laurea, soprattutto se quest’ultimo afferisce alle discipline che indirizzano verso la libera professione: tra i laureati a ciclo unico con almeno un genitore con titolo di studio universitario, infatti, ereditano la medesima laurea dei genitori il 33,2% delle donne rispetto al 45,6% degli uomini. Il differenziale di genere permane considerando anche lo status socio-economico: il 20,9% delle donne proviene da una famiglia di estrazione sociale elevata rispetto al 24,8% degli uomini. Non stupisce quindi che tra le donne sia maggiore la percentuale di chi ha usufruito di borse di studio: il 28,5% delle donne rispetto al 23,9% degli uomini.

Tuttavia si registrano ancora una volta significative e persistenti disuguaglianze di genere. Su tale aspetto AlmaLaurea ha sviluppato un approfondimento ad hoc evidenziando che tra i laureati di secondo livello, a cinque anni dal conseguimento del titolo, le differenze di genere, in termini occupazionali, si confermano significative e pari a 3,4 punti percentuali: il tasso di occupazione è dell’86,8% per le donne e del 90,2% per gli uomini. A un lustro dal titolo tra le donne sono meno diffusi i contratti alle dipendenze a tempo indeterminato (49,9% rispetto al 56,1% degli uomini), mentre risultano più frequenti i contratti a tempo determinato (17,0% rispetto al 9,9% degli uomini). È naturale che queste differenze siano legate anche alle diverse scelte professionali maturate da
uomini e donne; queste ultime, infatti, tendono più frequentemente a inserirsi nel pubblico impiego e nel mondo dell’insegnamento, notoriamente in difficoltà nel garantire, almeno nel breve periodo, una rapida stabilizzazione contrattuale. Le differenze di genere si confermano anche dal punto di vista retributivo. A cinque anni dal titolo, tra i laureati di secondo livello che hanno iniziato l’attuale attività dopo la laurea e lavorano a tempo pieno, le donne dichiarano di percepire 1.711 euro netti mensili, rispetto ai 1.927 euro degli uomini, con un differenziale del 12,6%. I dati evidenziano differenze anche rispetto al tipo di professione svolta: a cinque anni dal titolo svolge un lavoro a elevata specializzazione (compresi gli imprenditori e l’alta dirigenza) il 63,1% delle donne e il 65,9% degli uomini. In termini di efficacia del titolo nel lavoro svolto, misura soggettiva di coerenza tra studi compiuti e lavoro svolto in quanto si basa su valutazioni espresse dai laureati occupati, però, le differenze si attenuano notevolmente: infatti ritiene il titolo “efficace o molto efficace” per lo svolgimento del proprio lavoro il 76,4% delle donne occupate e il 74,9% degli uomini occupati. Anche se, nelle dichiarazioni rese a cinque anni dalla laurea, non si evidenziano differenze di genere in merito alla soddisfazione complessiva per il lavoro svolto, su alcuni aspetti le donne sono leggermente meno soddisfatte del proprio lavoro. In particolare, sono meno gratificate dalle opportunità di contatti con l’estero, dalle prospettive di guadagno e di carriera, dalla flessibilità dell’orario di lavoro e dal prestigio derivato dall’attività svolta. Fa eccezione, denotando una maggiore soddisfazione nella componente femminile, l’utilità sociale del lavoro e la coerenza con gli studi compiuti. La lettura dei dati conferma che le donne sono più penalizzate sul lavoro se hanno figli. Il forte divario in termini occupazionali e retributivi tra donne e uomini, infatti, aumenta in presenza di figli. Isolando quanti non lavoravano alla laurea, il differenziale occupazionale a cinque anni dal conseguimento del titolo è pari a 2,3 punti percentuali tra quanti non hanno figli (il tasso di occupazione risulta pari all’86,8% per le donne, rispetto all’89,1% per gli uomini); tale differenziale sale addirittura a 18,2 punti percentuali tra quanti, invece, hanno figli (il tasso di occupazione risulta pari al 76,7% per le donne, rispetto al 94,9% per gli uomini). Anche in termini retributivi si confermano differenze significative (in tale analisi si considerano quanti hanno iniziato l’attuale lavoro dopo la laurea e lavorano a tempo pieno): se tra i laureati senza figli il differenziale retributivo è del 12,0%, tra i laureati con figli tale differenziale retributivo tende a raddoppiare (+21%).

L’indagine mette in evidenza la diversa composizione per genere tra i laureati Stem, dove la componente maschile è più elevata e raggiunge il 58,6%, rispetto al 41,4% di quella femminile; ciò riguarda in particolare i gruppi Informatica e tecnologie Ict e quello di Ingegneria industriale e dell'informazione, dove la presenza maschile supera addirittura i due terzi. Tale risultato è in controtendenza con quanto rilevato sul complesso dei laureati 2023 dove, al contrario, è la componente femminile ad essere preponderante rispetto a quella maschile. Negli ultimi anni, tuttavia, tra i laureati Stem il vantaggio della componente maschile si sta leggermente riducendo: nel 2019, infatti, gli uomini rappresentavano il 59,8% mentre le donne il 40,2%, con un differenziale di quasi 20 punti. Le donne si iscrivono a un percorso Stem spinte da forti motivazioni culturali (30,3% rispetto al 25% degli uomini, +5,3 punti percentuali) e svolgono un buon numero di tirocini e stage riconosciuti dal proprio corso di laurea (61,3% delle donne rispetto al 49,2% degli uomini, ben 12,1 punti percentuali in più degli uomini). Le differenze di genere in ambito Stem su questi aspetti
sono superiori a quelle registrate sul complesso dei laureati del 2023. Le donne, tradizionalmente più performanti negli studi universitari, sia in termini di voto sia in termini di regolarità negli studi, mostrano risultati migliori rispetto agli uomini anche nei percorsi Stem: sono infatti caratterizzate da un voto medio di laurea più alto (104,5 su 110, rispetto al 102,6 degli uomini) e da una migliore riuscita in termini di regolarità negli studi (tra le donne il 58,1% ha concluso gli studi nei tempi previsti rispetto al 52,7% degli uomini). Sulla riuscita universitaria le differenze di genere nell’ambito Stem sono in linea con quelle del complesso dei laureati.

Il 68,2% delle donne, rispetto al 61,3% degli uomini intendono proseguire la propria formazione; inoltre, le laureate Stem nella ricerca del lavoro danno maggiore rilevanza ad alcuni aspetti. Le donne ricercano più degli uomini lavori stabili (il 76,9%, +11,5 punti percentuali) e danno maggiore importanza rispetto ai colleghi all’utilità sociale del lavoro (il 45,4%, +11,6 punti percentuali) e all’indipendenza/autonomia (il 63,8%, +9,5 punti percentuali). È interessante notare che la rilevanza attribuita dalle donne in area Stem a questi tre aspetti del lavoro è in costante aumento dal 2015 al 2023, precisamente per la stabilità (+6,4 punti percentuali rispetto al 2015), per l’utilità sociale del lavoro (+8,8 punti percentuali) e per l’indipendenza e autonomia (+15,6 punti percentuali). Il gender gap nel mondo del lavoro per le laureate Stem è in lieve flessione, ma le donne sono comunque ancora penalizzate.

L’indagine mostra elevati livelli occupazionali sia per gli uomini sia per le donne: tra i laureati Stem, infatti, il tasso di occupazione è pari al 90,1% per le donne e al 92,6% per gli uomini, con un differenziale pari a -2,5 punti percentuali (è -3,4 punti sul complesso dei laureati di secondo livello). Tale differenziale risulta più che dimezzato rispetto a quanto rilevato nel 2019 tra i laureati Stem (-5,9 punti percentuali sempre a svantaggio delle donne). Isolando coloro che hanno iniziato l’attuale attività lavorativa dopo la laurea e lavorano a tempo pieno, tra i laureati Stem la retribuzione mensile netta è, in media, di 1.798 euro tra le donne e 2.025 euro tra gli uomini. Anche in termini retributivi, dunque, gli uomini risultano avvantaggiati rispetto alle donne, percependo il 12,6% in più (valore in linea con il dato rilevato sul complesso dei laureati di secondo livello). L’analisi temporale, tuttavia, mostra una tendenziale riduzione del gender pay gap (nel 2019, infatti, tra i laureati Stem gli uomini percepivano il 19% in più rispetto alle donne). In termini di caratteristiche del lavoro svolto, tra le donne Stem si rileva una minore diffusione dei contratti alle dipendenze a tempo indeterminato (-15,1 punti percentuali) e una maggiore diffusione delle attività in proprio (+5 punti; si tratta in particolare di studi professionali di architettura), dei contratti alle dipendenze a tempo determinato (+4,9 punti) e delle attività sostenute da borsa o assegno di studio o di ricerca (+3,5 punti).

Lavoro e istruzione, in discesa gli occupati con bassi livelli di formazione

C’è ancora un’alta percentuale di occupati in Italia con bassi livelli di formazione, ma in netta discesa rispetto a qualche anno fa: si è passati infatti dal 45% del 2000 al 26% del 2024. Considerando, invece, la dinamica del nostro Paese in relazione alla formazione più alta e soprattutto a quella universitaria, si è passati nel primo caso dal 42 al 47% negli ultimi 25 anni e nel secondo dal 13% al 27% del totale degli occupati. I dati emergono dalla ricerca Raccontare il mercato del lavoro in Europa: come il grado di specializzazione economica e tecnologica influenza la qualità della domanda di lavoro di Paolo Maranzano (Università degli Studi di Milano-Bicocca) e Roberto Romano (Associazione Economia & Sostenibilità). Numeri, quelli della ricerca, che si inseriscono in un contesto più ampio che prende in considerazione i quattro Paesi perno dell’Unione Europea, ovvero Germania, Spagna, Francia e Italia e da cui emerge che negli ultimi 20 anni c’è un progressivo miglioramento dell’occupazione tra laureati e diplomati. Se l’Italia, secondo una rielaborazione su dati Eurostat, mantiene ancora una percentuale troppo alta di occupati con bassi livelli di formazione, seppure in netta discesa, la Francia è il Paese che occupa meno persone con istruzione primaria e secondaria inferiore, passando dal 30% del 2000 al 12% del 2024. La Germania si conferma per una forte stabilità dei livelli intermedi (50% del totale), e con una forte crescita dell’occupazione di soggetti con educazione terziaria (diploma di laurea o superiore), pari al 37% nel 2024.

Il livello di istruzione genera anche una differenza retributiva significativa. Se confrontiamo i valori del 2022 con quelli del 2018, in tutti i Paesi analizzati e per tutte le fasce di istruzione si registrano aumenti, seppur con evidenti disparità tra i Paesi. Infatti, mentre in Germania i salari orari sono aumentati mediamente del 11% per i lavoratori con formazione universitaria e del +13% per quelli con un livello di formazione bassa e intermedia, in Francia e Spagna l’aumento è compreso rispettivamente tra il +5% e il +13%. L’Italia è l’unico dei quattro Paesi ad aver registrato variazioni inferiori al +3% per ogni livello educativo. Se analizzata in termini percentuali, la differenza nelle retribuzioni medie orarie aumenta al crescere dei livelli educativi in tutti e quattro i Paesi considerati. La distanza retributiva tra i lavoratori tedeschi con educazione universitaria e quelli con educazione bassa è del 141%; in Spagna del 76%; in Francia del 74% e in Italia dell’81%. Le differenze sono principalmente legate alla specializzazione produttiva che “premia” i profili professionali con maggiore competenza e istruzione.

La differenza di genere nella retribuzione rimane un tema importante per tutti i Paesi considerati e aumenta al crescere dei livelli educativi. Eppure, molto significativo è il contributo delle donne che, passo dopo passo, emergono come il motore del cambiamento quali-quantitativo dell’occupazione. In tutti e quattro i Paesi considerati, la percentuale di donne occupate tra i livelli educativi più alti registra tassi di crescita maggiori rispetto a quelli degli uomini. In particolare, sono le donne con qualifica 5-8 (istruzione universitaria) a registrare un miglioramento sul totale dell’occupazione. In Germania la presenza femminile ai livelli più alti di istruzione passa dal 9 al 14% del totale dell’occupazione tra il 2000 e il 2020; in Spagna dal 12 al 24%; in Italia passa dal 5 al 14%; in Francia dal 12 al 25% del totale dell’occupazione.

Tra "fuga dei cervelli" e riscatto della pensione

In Italia la quota di laureati, con un’età compresa tra 25 e 34 anni, ha raggiunto nel 2024 il 31,6%, segnando un leggero miglioramento rispetto agli anni precedenti. Il dato, però, è ancora lontano dall’obiettivo europeo del 45% entro il 2030. Per questo l’Italia è al terzultimo posto in Europa, seguita solo da Romania e Ungheria, e molto distante da Paesi come Spagna e Francia che superano il 50% di laureati. Istat rileva che il tasso di occupazione dei laureati è 11 punti percentuali più alto di quello dei diplomati (84,3% vs 73,3%). Ma la maggior facilità di trovare lavoro non blocca la cosiddetta “fuga di cervelli”: i laureati italiani che negli ultimi dieci anni hanno lasciato l’Italia sono circa 97mila. Con 21mila laureati che sono espatriati, solo nel 2023, il nostro Paese ha raggiunto un record storico. Quale nazione scelgono i giovani per cercare un futuro migliore? La Germania (12,8%), seguita da Spagna (12,1%) e Regno Unito (11,9%). In questi Stati i giovani trovano ciò che in Italia manca: stipendi più alti, possibilità di carriera e un mercato del lavoro più meritocratico e flessibile. Spesso sentono mancare un ambiente dinamico e valorizzante, soprattutto nei settori ad alta specializzazione.

Un altro tema caldo, che allontana i giovani dal mondo del lavoro è il mismatch tra domanda e preparazione scolastica. I lavoratori specializzati sono sempre più introvabili: lo confermano i dati pubblicati da Unioncamere e il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Nel 2024 ammonta al 47,8% la difficoltà di reperire personale, in aumento del 2,7% rispetto al 2023. Tra le regioni, le più in difficoltà sono Veneto, Umbria e Friuli-Venezia Giulia con il 65% circa di lavoratori introvabili, seguono Trentino-Alto Adige con 62,7%, Piemonte – Valle d’Aosta, Toscana ed Emilia-Romagna, con il 61,7% e la Lombardia con 61,2%. A pesare su questa carenza vi sono anche altri fattori, quali la denatalità e l’invecchiamento della popolazione, ma anche il cosiddetto paradosso del “grande spreco” rappresentato dai giovani inattivi, che riguarda un quarto della popolazione tra 25 e 34 anni.

L’imprenditrice Paola Veglio, attiva nel mondo dell’automazione industriale, da anni denuncia la difficoltà di trovare giovani lavoratori. Nel suo caso, il problema è acuito dalla particolare dislocazione geografica della sua azienda: il piccolo borgo di Cortemilia, nell’Alta Langa, lontano dai servizi offerti dalle grandi città. «Impazzire per trovare lavoratori qualificati è un lusso che il nostro Paese non può permettersi. Penso sia necessario un maggior dialogo tra scuola e tessuto imprenditoriale. I percorsi di stage o l’alternanza scuola lavoro sono utili ma non sufficienti – racconta Veglio -. Dovrebbe esserci una maggior presenza fisica dei ragazzi sul luogo di lavoro, in modo che una volta preso il diploma possano avere le idee più chiare su ciò che vorranno fare. È sempre più difficile agganciare i giovani, perché il loro modo di pensare è diverso dalle generazioni precedenti; finchè non entreremo in sintonia con loro sarà difficile coinvolgerli. Si potrebbe partire, per esempio, da una narrazione diversa del lavoro in fabbrica, oggi sempre più tecnologicamente sofisticato, per riqualificare l’immagine dell’operaio e renderla più interessante. Ci vorrebbero più incentivi per assumere i giovani e dovrebbe essere reintrodotta l’opportunità ai minorenni di partecipare agli stage estivi. Spesso arrivano ai 18 anni completamente spaesati e senza avere la minima idea di come funzioni il mondo lavorativo».

Un altro tema dal quale i giovani si sentono tagliati fuori è la pensione, tappa fondamentale nella vita di ogni lavoratore e che dovrebbe essere la garanzia di una meritata sicurezza economica nella vecchiaia. Eppure, ancora molti italiani sono poco informati su questo tema cruciale. L’ultima indagine condotta da Anima SGR, su un campione di oltre 1.000 adulti, ha evidenziato come l’81% sia preoccupato per il proprio futuro pensionistico, ma di fatto non agisca per tutelarsi. In particolare, solo il 21% ha attivato una soluzione integrativa, mentre il 33% è rimasto immobile e il 27% si è informato senza procedere.

«La pensione non è solo un traguardo, ma un obiettivo che va pianificato con attenzione, fin dai primi anni di lavoro. Una consulenza adeguata permette di fare scelte consapevoli e costruire una previdenza su misura. Solo così si può affrontare il futuro con serenità e sicurezza - spiega Andrea Martelli di MiaPensione, azienda di consulenza previdenziale -. Tra le opzioni attualmente disponibili per una maggior tutela previdenziale, l’Inps propone il riscatto della laurea, ovvero la possibilità di valorizzare gli anni di studio universitario convertendoli in anni di contributi ai fini pensionistici». Il riscatto può essere chiesto da tutti i cittadini che hanno conseguito un diploma di laurea, un diploma universitario, un diploma di specializzazione o un dottorato di ricerca. La domanda può essere presentata sia da chi ha già versato dei contributi obbligatori, sia da chi ancora non ha iniziato a lavorare. Non è invece possibile fare richiesta se, in concomitanza con il periodo di studio, si è percepita una contribuzione accreditata nella gestione previdenziale.

«Il costo - sottolinea Martelli - è estremamente variabile e va valutato con attenzione, caso per caso; sono disponibili due modalità d’azione: il riscatto ordinario e il riscatto agevolato. Nel primo caso, il computo dipenderà dalla collocazione temporale degli anni di studio da riscattare: se precedono il 1996 il calcolo sarà retributivo, se sono successivi sarà contributivo. La prima soluzione impiega il sistema a riserva matematica e il costo sarà determinato moltiplicando il beneficio economico, ottenibile dalla differenza tra pensione con e senza riscatto, per un coefficiente calcolato sull’età anagrafica e sull’anzianità contributiva del richiedente. Nei casi successivi al 1996, invece, si usa il sistema a percentuale e il costo viene calcolato applicando un’aliquota di prelievo al reddito imponibile nell’anno in cui si presenta la domanda di riscatto. Nel caso di un lavoratore dipendente, si applica il 33%, il 24% nel caso di un commerciante. Il riscatto agevolato, invece, prevede il pagamento di un importo fisso, indipendente dallo stipendio o dal reddito. L'onere è determinato applicando il 33% al minimale degli artigiani e commercianti relativo all'anno in cui si presenta la domanda. Per esempio, il minimale 2025 per i commercianti è di 18.555 euro. L’onere per un anno di riscatto sarà quindi pari a 6.123,15 euro. Tale cifra andrà moltiplicata per gli anni di studio che si intende riscattare».

Ma non conviene sempre riscattare la laurea. Soprattutto se l’obiettivo è quello di aumentare l'assegno pensionistico: il beneficio spesso non giustifica l'onere investito e il break even è generalmente collocato troppo avanti nel tempo per essere ritenuto un buon investimento. Diverso è il caso in cui l’intento sia di anticipare la pensione; si tratta di una scelta molto personale, dettata dalla volontà di investire un onere, a volte sostenuto, pur di interrompere l'attività lavorativa. «L’errore - conclude l'esperto - nasce spesso da una percezione sbagliata di questo strumento e da una valutazione errata o superficiale dei suoi benefici. Dobbiamo necessariamente entrare nell’ottica che la soluzione che risulta ottimale per il nostro collega o amico, non per forza sarà conveniente anche per noi. Ritenere, inoltre, che il riscatto anticipi sempre la decorrenza della pensione è altrettanto sbagliato: se abbiamo un richiedente con 20 anni di contributi, aggiungere 4-6 anni di riscatto della laurea non aiuterebbe comunque ad accedere alla pensione prima dei 67 anni di età. È importante ponderare bene le scelte e valutare con attenzione le opportunità a nostra disposizione, prima d’incappare in una spesa poco vantaggiosa. Rivolgersi a consulenti esperti è certamente il primo passo per una decisione consapevole e responsabile per il nostro futuro previdenziale».



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