mercoledì 27 ottobre 2021
Nel trimestre settembre-novembre sono previsti 1,5 milioni di nuovi contratti. Il 30% è rivolto a giovani. Resta il problema del difficile reperimento e dell'orientamento
Entro novembre previsti 1,5 milioni di nuovi contratti

Entro novembre previsti 1,5 milioni di nuovi contratti - Archivio

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In un’Italia sempre più anziana, con un’età mediana di 45,6 anni nel 2020 e destinata a raggiungere i 50 anni entro il 2060, c’è un grande potenziale per la sostenibilità del Paese: 5,3 milioni di giovani fra 15 e 29 anni inattivi, di cui il 42% residente al Sud, pari al 13,8% della popolazione in età lavorativa (15-64 anni). Un “arcipelago” variegato, che comprende giovani inattivi per un giustificato motivo perché studenti (4,2 milioni, statisticamente inattivi perché inoccupati o non a alla ricerca di un lavoro) e invalidi (158mila), il record europeo di Neet, persone che non studiano e non lavorano (1,1 milioni di inattivi in senso stretto, a cui si aggiungono circa 800mila disoccupati), e troppi “occupati” con contratti precari o che lavorano poche ore alla settimana. Un potenziale da riattivare urgentemente attraverso politiche attive per i Neet, un “Piano Marshall” per la formazione post-secondaria e investimenti in ricerca e sviluppo. “Isole” diverse tra loro ma accomunate dalla scarsa o nulla integrazione con il mercato del lavoro e, in generale, da competenze carenti o diverse da quelle richieste dal mondo lavorativo nella “società della conoscenza”, come quelle digitali, che un giovane su tre non ha sviluppato nemmeno a livello base, anche fra i cosiddetti nativi digitali. Un problema storico che nasce durante gli anni delle scuole: il 13,1% dei ragazzi fra 18 e 24 anni ha interrotto prematuramente gli studi e soltanto il 37% degli studenti si iscrive a percorsi di istruzione-formazione post-secondari. E prosegue quando dopo la scuola ci si affaccia al mondo del lavoro: il 22,2% dei giovani sono Neet scoraggiati che non lavorano e non cercano impiego, contro il 12,5% della media europea, addirittura il 52,8% fra i 16-24enni. È quanto emerge da Le isole dei 5,3 milioni di giovani inattivi, il rapporto di Randstad Research.

Le aziende italiane a caccia di nuovo personale

Nel trimestre settembre-novembre sono previsti 1,5 milioni di nuovi contratti di lavoro, di questi, il 30% è rivolto a giovani under 29. Parliamo di 450mila posti che non saranno, purtroppo, occupati, in quanto di difficile reperimento. Un vero spreco, in un momento storico in cui la disoccupazione giovanile in Italia è al 27,3% nella fascia 15/24 anni e il numero di Neet (giovani che non studiano, non lavorano, e non si impegnano in altre attività) è il 23,3% nel 2020 con una tendenza in crescita. Con questi numeri sullo sfondo e con la crisi pandemica che ancora condiziona la quotidianità di scuole, Università e imprese, il 3 novembre si apre la XXII edizione di Orientasud, il Salone delle opportunità, che quest’anno si svolgerà in modalità digitale, ma che offrirà ai partecipanti la possibilità di cogliere gli stessi contenuti del Salone in presenza. Per maggiori informazioni: www.orientasud.it.

Ecco come si trova il lavoro

La forte trasformazione digitale che sta vivendo il mondo del lavoro ha portato a una moltiplicazione dei canali e degli strumenti che candidati e selezionatori hanno a disposizione. Tuttavia, secondo la ricerca Work Trends Study 2021 condotta da Adecco in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, se l’ascesa del digitale nella ricerca del lavoro è oggi un fatto conclamato - tanto che il 70% dei candidati e quasi il 30% dei recruiter dichiarano di utilizzare questo strumento per più della metà del tempo dedicato rispettivamente alla ricerca del lavoro e alla selezione dei candidati - i diversi canali risultano avere un impatto molto differente. Mettendo a confronto le abitudini dei candidati e le opinioni dei recruiter, infatti, si possono notare alcune discrepanze fra quelli che sono considerati i migliori canali nella ricerca del lavoro. Al primo posto come strumento più gettonato, per entrambe le categorie, si trovano le bacheche di annunci, utilizzate dall’87% dei candidati e dal 47% dei recruiter. Queste, inoltre, sono ritenute il canale più efficace da parte dei selezionatori, ottenendo il 62,2% di voti positivi. Un ottimo livello di efficacia viene riconosciuto anche ai social media, che ottengono il 58,6% di voti dei professionisti Hr. Questi sono utilizzati dal 44% dei recruiter e dal 60% dei candidati, ma rispetto alle rilevazioni fatte negli anni scorsi si nota un’ulteriore polarizzazione nell’uso dei diversi social per la ricerca del lavoro. Facebook e Instagram, che nel 2019 erano utilizzati a questi scopi rispettivamente dal 31% e dal 10%, scendono al 27% e all’8%, mentre Linkedin sale dal 57% al 66%. Dato ulteriormente interessante è la differenza del livello di istruzione di chi utilizza i social per trovare lavoro: si passa dal 46% di chi ha una qualifica professionale, al 53% di chi possiede un diploma di scuola secondaria, fino all’81% di chi ha un master. Infine, come ultimo canale digitale, troviamo i siti aziendali. Sebbene siano utilizzati dal 70% dei candidati, risultano non solo i meno utilizzati dai selezionatori (solo il 41% ne fa uso), ma da questi sono largamente considerati lo strumento meno efficace, con solo il 34% di voti positivi.

Gli strumenti per l’orientamento

A un anno dalla maturità, per il 15,3% dei diplomati la scelta universitaria non si dimostra giusta. Secondo il Rapporto 2020 sulla condizionale occupazionale e formativa dei diplomati (AlmaDiploma e Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea), fra i diplomati del 2018 che hanno deciso di continuare gli studi (71,7%), il 6,6% ha deciso di abbandonare l’Università, mentre un ulteriore 8,7% ha cambiato Ateneo o corso di laurea. Gli abbandoni hanno coinvolto il 4,6% dei liceali, il 10,5% dei tecnici e il 13,1% dei professionali. Il tutto quando, secondo i dati Eurostat 2020, l’Italia occupa la penultima posizione in Europa per quota di laureati (29% dei giovani tra i 25 e i 34 anni) e nonostante il tasso di occupazione tra i 30-34enni laureati sia di quasi dieci punti più elevato di quello dei diplomati (69,5%, dati Istat). Determinante risulta l’area disciplinare per trovare lavoro: nel 2019 il tasso di occupazione raggiunge il livello più alto per l’area medico-sanitaria (86,8%), seguono le lauree Stem (83,6%), poi l’area socioeconomica e giuridica all'81,2% (Istat). Perciò Campus Next Generation Platform (Il Salone dello Studente), Irase Nazionale ed Enfap Italia lanciano un’iniziativa per venire incontro ai docenti delle scuole italiane che hanno scelto di mettersi a disposizione per consigliare gli studenti nella scelta post diploma. Si chiama Strumenti per l’orientamento ed è un ciclo di corsi completamente gratuito, fruibile sulla piattaforma www.salonedellostudente.it, in programma fino al 28 gennaio 2022.

L’esempio di Iziwork in Emilia-Romagna

Iziwork - la start up che tramite una piattaforma digitale basata su intelligenza artificiale e analisi dei dati, velocizza e ottimizza i processi di ricerca e selezione - inaugura il suo nuovo hub a Parma, intensificando la propria presenza in Emilia-Romagna dopo l’apertura dell’hub con sedi a Rimini e Bologna a maggio. Quello di Parma si unisce agli altri centri inaugurati da Iziwork sul territorio - Brescia, Torino, Rimini, Bologna, Pordenone e Verona - e alla sede centrale di Milano aperta lo scorso novembre. Un’espansione che le ha permesso in meno di un anno di annoverare nel proprio database 180mila lavoratori iscritti e oltre 250 aziende clienti. Nella classifica dei profili più a caccia di lavoro primeggiano i magazzinieri. In seconda posizione gli addetti alle pulizie, una tipologia di lavoro che ha registrato una forte richiesta con il moltiplicarsi delle procedure di sanificazione durante la pandemia, seguiti dai camerieri, stimolati dalla riapertura di locali, ristoranti e bar, e dagli operai di produzione. A livello di aziende, i settori che si sono serviti maggiormente di Iziwork per la ricerca di candidati nei sei mesi di attività in Emilia-Romagna sono quello della produzione industriale e manifattura (48%), retail (21%), trasporti e logistica (16%) e hotellerie e ristorazione (7%).

Ripartire dal ricollocamento

La crisi da Covid-19 ha avuto un forte impatto sul mondo del lavoro. Per poter continuare a competere nell’economia post-pandemica, molte aziende avranno bisogno di riqualificare i propri lavoratori, a partire dalle competenze. In questo scenario è possibile che si registri un aumento della disoccupazione, accelerato anche dallo sblocco dei licenziamenti. I risultati della ricerca condotta da Right Management – Talent Solutions di ManpowerGroup evidenziano che percorsi di ricollocamento (servizio di consulenza che supporta la persona nella transizione verso un nuovo lavoro), rivestono un ruolo fondamentale nell'aiutare aziende e lavoratori in percorsi di transizione lavorativa. I dati provenienti da oltre 300mila processi di ricollocamento mostrano che nel 2020 il 79% dei candidati che è stato coinvolto in un processo di questo tipo è passato a un nuovo lavoro con un ruolo uguale o superiore, mentre il 57% dei candidati ha trovato una posizione con un compenso uguale o superiore, permettendo dunque un sostanziale avanzamento di carriera. I dati indicano inoltre che è necessario adottare un approccio agile per riuscire a trovare una nuova posizione: nel 2020 ben il 48% dei candidati che si trovavano in una fase di transizione occupazionale ha infatti cambiato lavoro attraverso un percorso di outplacement.

Tra spazi condivisi e lavoro agile

Se, prima della pandemia, il 95% delle aziende italiane non aveva mai pensato all’idea di spazi condivisi (coworking), né tantomeno provato, e il 5% faceva i primi test, ora il quadro è differente: solo il 5% delle aziende non ha avuto il problema di “dove far lavorare le persone”, mentre il restante 95%, nello spazio di poche settimane, ha vissuto l’urgenza di interrogarsi sul modo per svolgere le attività aziendali, pur non andando in ufficio. Queste sono le riflessioni presenti nel libro Ho fatto un coworking, anzi 100. Se la relazione viene prima del business. Storia di Cowo. Il volume porta la firma di Massimo Carraro, fondatore di Cowo, la rete di coworking indipendenti. In un periodo di quarantena forzata, l’interesse per il coworking non scompare, anzi. Contrariamente a quanto inizialmente tutti si aspettavano, fin dai primi giorni della pandemia e poi via via per tutto il periodo dell’emergenza di questi mesi del 2021-2021, le richieste di spazi condivisi talvolta in chiave esplorativa per il futuro, tal altra per sondare disponibilità immediate, non si sono mai interrotte. Anche a livello di nuovi spazi, vi sono state numerose nuove apertura di coworking Cowo in tutte le zone d’Italia: da Rovigo a Pisa, da Milano a Bari. Inoltre le aziende mandano i dipendenti al coworking. Il dato di rilevo, proveniente da una ricerca di TraiLab-Università Cattolica, parla di un 52% di spazi condivisi che ha ricevuto nuove richieste da parte di aziende. Infine aumentano le richieste a giornata: sessioni di lavoro e videochiamate, riunioni condominiali. Tutti gli spazi di coworking hanno ricevuto, nell’arco del 2020-2021, molte più richieste del solito relativamente a utilizzi di sale riunioni per sessioni di lavoro tra dipendenti, postazioni per videochiamate (anche qui, spesso per dipendenti che si mettevano in contatto con la propria sede) e perfino riunioni condominiali e discussioni di tesi per studenti universitari.

Intanto si registrano nuove tendenze per il lavoro agile. Se da un lato molte realtà, dai grandi gruppi ai piccoli imprenditori, negli ultimi mesi hanno effettuato un “richiamo all’ordine”, scegliendo di far rientrare la popolazione aziendale in sede, dall’altro nel prossimo autunno potrebbero delinearsi nuovi scenari che potrebbero confermare quello del lavoro a “distanza” o in altra sede come il modello del futuro. Ma quali sono i benefit o gli svantaggi per le persone? E quali gli impatti sull’espressione del talento? Cofoundry, spazi coworking presenti a Milano e Genova, ha realizzato un’indagine sui propri coworker, esplorando il rapporto con i nuovi spazi di coesione e lavoro dal punto di vista di aziende, start up e freelance. Nel confronto con lo smart working da casa, il campione di aziende intervistate da Cofoundry giudica positiva la propria esperienza in coworking, ritenendola una soluzione decisamente migliore (57%), e dichiarando di aver riscontrato un miglioramento della propria qualità della vita: per gli aspetti di team building (47%), perché permette di conoscere altri professionisti e allargare la rete (43%), di confrontarsi, scambiare idee ed essere più creativi (39%), di occupare spazi personalizzabili in base alle proprie esigenze (24%), risparmiando sui costi di affitto e altre spese (20%). La “dimensione sociale” è uno degli aspetti che ha inciso di più nella scelta di questa tipologia di luogo: il 24% ammette di preferirlo perché qui ci si sente meno soli, con un 33% dei professionisti che ha assegnato un valore di 8 in una scala da 1 a 10 e un 24% che si è spinto fino al livello 10, giudicando essenziale il contatto con i colleghi e altre persone. Dall’inizio della pandemia ad oggi, il modo di lavorare è senz’altro cambiato, con ripercussioni anche nelle capacità di espressione di talento e competenze. Il 37% degli intervistati crede che nell’ultimo anno lo smart working e il potenziamento della comunicazione digitale abbiano facilitato i singoli a concentrarsi di più su se stessi, consentendo di creare una dimensione professionale nuova, adatta al meglio delle proprie potenzialità. D’altra parte, il 34% è convinto che le distanze abbiano imposto troppi limiti e barriere, soprattutto nel confronto con gli altri, con ripercussioni anche sull’espressione del talento. Per 6 su 10, infatti, proprio il digitale e l’essere sempre in call e iper-connessi ha rappresentato il problema principale, seguito per il 37% dai problemi di connessione, per il 29% dall’aver lavorato con nuovi ritmi strutturati sull’organizzazione personale e non dei team, e per il 25% dall’aver lavorato di più, senza i limiti di orario scanditi da un ufficio.

Ma quali scenari per il lavoro di domani? Avere a disposizione spazi esterni dedicati alla socialità (55%); immersi in contesti verdi e naturali, che influiscano sul benessere psicofisico dei lavoratori (51%); in cui poter fare rete con altri lavoratori dello stesso settore, da cui poter imparare e con cui poter collaborare (41%); ma anche essere circondati da un’estetica curata e di design, perché lavorare a contatto con il “bello” può migliorare le prestazioni e l’umore (37%), prevedere aree per l’attività fisica (20%), creare una rete con i negozi/realtà del quartiere per ampliare ulteriormente il network sul territorio (18%), offrire un supporto a chi è genitore con iniziative per i figli (aree dedicate, laboratori, giochi, percorsi educativi, ecc.), e mostrarsi pet-friendly, dando la possibilità di portare con sé il proprio cane/gatto (16%). È questa la fotografia del luogo ideale tracciata dai lavoratori intervistati da Cofoundry. Partendo dall’attuale scenario storico e socio-economico che stiamo attraversando, il 26% si dichiara convinto che per la migliore espressione del talento in azienda sia necessario andare oltre l’immobilismo e l’” attaccamento” alla sedia di un unico ufficio, mentre per il 13% bisognerebbe superare persino il concetto stesso di lavoro fisico sui territori, svolgendo in remoto attività per aziende straniere, senza l’obbligo di spostarsi e prevedere una presenza in quel Paese.

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