
Da un lato il beneficio di aver cominciato a produrre negli Usa già da oltre un decennio, con il vantaggio di non dover importare le proprie merci e sottostare ai dazi voluti da Donald Trump (per ora sospesi); dall’altro, comunque, il rischio di doverle pagare, le tariffe, su quei macchinari made in Italy destinati agli impianti americani e che in molti casi consentono di avere un plus tecnologico e produttivo rispetto a quelli rintracciabili sul mercato statunitense. Per Sofidel, tra i principali produttori di carta per uso igienico e domestico, la questione dei dazi è dunque fonte di incertezza, nonostante l’esperienza sul campo degli ultimi tredici anni in cui investimenti e acquisizioni hanno consentito al gruppo di diventare il quarto produttore sul mercato statunitense e il primo nel settore del “private label”, la marca privata del distributore.
Luigi Lazzareschi, ad di Sofidel, il presidente Usa Trump sostiene che grazie ai dazi la manifattura sarà incentivata a tornare negli Usa. È solo un’illusione?
L’Italia avrebbe tanto da dire negli Usa: lì l’industria manifatturiera è indietro di 25-30 anni rispetto a quella europea. Non mi riferisco alle nuove tecnologie, ma alla meccanica, alla farmaceutica, all’industria di processo. Indipendentemente dai dazi, sarebbe utile pensare seriamente a investire lì e i dazi oggi “premiano” chi quel percorso l’ha già fatto. Non credo, però, che saranno i dazi ad attirare grandi investimenti, semmai le considerazioni specifiche per ogni tipo di mercato.
Quali difficoltà avete incontrato nel vostro percorso negli Usa?
L’unica difficoltà è stata quella di reperire personale qualificato per un’impresa come la nostra che lavora sette giorni su sette su 24 ore. E soprattutto trattenere i lavoratori, perché spesso negli Usa il concetto stesso di fedeltà per la propria azienda è molto limitato e i lavoratori hanno meno stimoli a migliorare anche la loro posizione all’interno dell’azienda stessa. Il tasso di disoccupazione è così basso che il turnover dei lavoratori è alto, ci ritroviamo a fare continua formazione a dipendenti che dopo un po’ vanno via. In generale, la stessa produttività negli Usa è più bassa rispetto a tanti altri Paesi occidentali, così come constatiamo un alto abbandono scolastico e un impoverimento culturale.
Riguardo a leggi e regolamenti la minore burocrazia Usa aiuta?
Dipende da Stato a Stato, ma nella maggior parte degli Usa l’ambiente è molto “business friendly”, per cercare di richiamare investimenti industriali sia americani che stranieri. La normativa Usa in generale è molto più morbida di quella europea. In pochi mesi abbiamo realizzato investimenti per i quali in Italia sarebbero occorsi degli anni. Il nostro impianto principale è in Ohio, con un investimento complessivo su un singolo sito da 900 milioni.
Perché la scelta di produrre direttamente negli Usa, risalente ormai al 2012?
I nostri prodotti sono molto voluminosi e leggeri, il trasporto ci costerebbe troppo. Inoltre, in Europa, dove avevamo già una posizione importante, non c’erano più i ritmi di crescita precedenti, il mercato era già abbastanza maturo, mentre negli Usa abbiamo intravisto questa possibilità. Lì il mercato è concentrato nelle mani di pochi produttori che propongono il loro brand, ma non hanno predisposizione per produrre “private label”, ad esempio asciugatutto o tovaglioli della grande distribuzione. Noi abbiamo portato lì la nostra tecnologia, con impianti dimensionalmente importanti, per essere competitivi anche dal punto di vista dei costi. I nostri macchinari sono molto innovativi: la zona di Lucca rappresenta il più grande distretto cartario per uso igienico e domestico, dove è presente tutta la filiera produttiva. Abbiamo acquisito un primo stabilimento e da lì ci siamo espansi, investendo in nuovi impianti.
Politica e associazioni di categoria potrebbero fare di più per promuovere i prodotti italiani sul mercato Usa?
Paesi come Germania, Francia e Regno Unito si sono strutturati molto per facilitare gli investimenti su altri mercati compreso quello Usa. In Italia vedo ben poco. E’ sicuramente un processo lungo, richiede capacità che forse oggi non ci sono. Quando abbiamo fatto degli investimenti abbiamo richiamato l’interesse di gran parte di politici e governatori di molti Stati Usa, che si sono adoperati in prima persona, venendo anche in Italia. Io non ho mai visto nessun politico di alto grado preparato che abbia affiancato imprese come la nostra dando una certa garanzia e visibilità.
In definitiva, quanto pesa l’incertezza provocata dai dazi?
Anche se in qualche modo potremmo come gruppo ritenerci avvantaggiati dai dazi, visto che produciamo già negli Usa, non sono certamente favorevole. Per continuare a investire negli Usa, inoltre, ci serve tecnologia che viene dall’Europa, quindi saremmo anche forzati a costi extra per l’importazione di macchinari provenienti da Lucca. Certo, potremmo trovare qualche alternativa, ma a me piace molto portare l’italianità negli Usa: se devo dirlo, spero che i dazi non abbiano lunga vita.