
Enrico Marchi - IMAGOECONOMICA
«Faccio politica tutti i giorni, qui in banca». In una citazione illustre, di Raffaele Mattioli, c’è buona parte del passato, del presente e del futuro che immagina per sé Enrico Marchi. Dopo la finanza con Banca Finint, gli aeroporti con Save e la rete del Nord-Est, i giornali con il gruppo Nem costruito un anno e mezzo fa intorno ai quotidiani acquistati da Gedi, più d’uno si domanda cosa manchi ancora a questo imprenditore che da giovane voleva fare, nell’ordine, «il giornalista, il pilota di linea e poi la finanza». «Sono stato fortunato», racconta in questa (rara) intervista a tutto tondo ad Avvenire, «perché sono riuscito a soddisfare le mie aspirazioni». Resterebbe la politica attiva, in teoria, quella che da giovane l’ha visto militare tra i liberali, ma è qui che l’imprenditore se la cava con le parole di Mattioli, il celebre banchiere umanista abituato a essere tirato per la giacchetta «Cosa c’è di più politico di finanziare le imprese, sostenere le infrastrutture e dare voce ai territori? E a me basta e avanza».
Dottor Marchi, partiamo da quello che succede nel mondo: che cosa la preoccupa di più?
I toni che si stanno alzando. La ricerca di leader duri è segno dei tempi, l’incertezza chiede personalità forti, ma ora il nodo è mantenere tutto questo nell’alveo della democrazia. Da convinto europeista mi preoccupa un’Europa che continua a fare passi indietro, rispetto a chi l’ha fondata e alle urgenze che porta con sé questo periodo. E proprio di questo tema si parlerà al prossimo convegno nazionale annuale dei Cavalieri del Lavoro a Venezia il 6 e 7 giugno, “L’Europa che vogliamo”. Uno dei padri fondatori, Jean Monnet, che tra l’altro non era un politico di mestiere ma nasceva come commerciante di cognac, diceva che “l’Europa si farà attraverso le crisi e sarà la somma delle soluzioni fornite a queste crisi”. In tal senso potrebbe essere un buon momento, dovremmo equipaggiarci per affrontare nuove sfide e presidiare nuove aree in prima persona, ma finora siamo stati involuti e poco pragmatici.
Ci troviamo in piena “guerra dei dazi”. Cosa ne pensa?
Sono assolutamente negativi, non c’è un solo lato positivo e il rischio è che si metta in pericolo la stessa democrazia. Dobbiamo restare uniti, per un’Europa forte, e imparare dalla storia ricordando che “se le merci non passano i confini, lo faranno i soldati”.
Con la banca vede da vicino l’industria, con gli aeroporti ha il polso dei consumi e del turismo: che situazione legge?
Tra le aziende non va tutto male, anzi. Vedo una situazione a macchia di leopardo con aziende solide che guardano alla crescita e altre più deboli. Certo c’è molta preoccupazione per l’incertezza e come in tutte le accelerazioni della selezione darwiniana c’è chi resiste e cresce. Nel nostro Nord-Est ma non solo. Come banchiere posso dire che quando c’è un buon progetto, le risorse per finanziare e creare il nostro futuro non sono un problema.
Per il turismo continua un momento d’oro, tanto è vero che in pieno over-tourism i flussi sono diventati un problema: Venezia ne è l’emblema.
Con il dopo pandemia le persone hanno ritrovato la voglia di evadere, e scoperto che quando si viaggia il valore che si ottiene è molto più del prezzo che si paga. Per questo le presenze sono cresciute un po’ ovunque, e continueranno a farlo. Ma è un processo che va capito e regolato, in un modo molto più sofisticato di un semplice contingentamento degli ingressi: dobbiamo superare quello che per certi aspetti è ancora una forma di turismo “mordi e fuggi” e puntare a una fidelizzazione del pubblico, per spingere ad attrarlo più volte con esperienze sempre diverse, sempre più evolute.
Cosa manca?
Un’idea di gestione. Dovremmo gestire, e invece subiamo.
Non vale solo per il turismo.
Sì, è vero, rincorriamo tutto. In parte ci sta perché, come dicevamo, ci troviamo in una situazione senza precedenti. Ma abbiamo altri limiti che ci autoimponiamo, e che impattano pesantemente sul grande problema di cui tutti paghiamo il prezzo in Italia: la scarsa produttività, che si ripercuote sui salari, sugli utili, sugli investimenti, sulla spesa pubblica.
Un esempio?
La burocrazia.
C’è chi dice, soprattutto al Nord, che l’autonomia sia la risposta ai problemi di un’Italia troppo disomogenea.
Qui intorno al Veneto abbiamo due esempi, quello del Trentino Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia, che ci dimostrano come più autonomia consenta di incidere meglio sulla politica territoriale. Ma è un tema molto complesso, sia dal punto di vista delle singole materie che dell’iter necessario.
Il Governo ha costruito la riforma dell’autonomia differenziata, che però è molto divisiva: da imprenditore che fa politica tutti i giorni, la vedrebbe di buon occhio?
La polemica non aiuta a capire quale è la situazione reale, e poi in politica bisogna spesso passare dall’ideale al possibile. Un percorso di gradualità potrebbe essere una strada.
Un tema vicino è quello dell’integrazione degli immigrati, al centro di un’altra potenziale riforma – quella della cittadinanza alle nuove generazioni – che però stenta a prendere forma, oltre ad essere uno dei quesiti referendari del prossimo 8 e 9 giugno.
Mi sembra innegabile che oggi ci sia bisogno di immigrati, anzitutto per lavoro. E poi ci sono le nostre scuole, piene di ragazzi che quando saranno grandi rischiano di trovarsi ai margini o a vivere nel conflitto per una semplice questione di passaporto: dobbiamo vivere tutti questi processi attivamente e non, ancora una volta, farci travolgere. In questo quadro non sono però convinto che il referendum sia lo strumento migliore per affrontare un tema così complesso.
E qui al Nord-Est che aria tira su questi temi?
Ci sono due atteggiamenti. La paura di un’evoluzione della società diversa da quella in cui siamo vissuti da un lato, dall’altro la necessità di avere la possibilità di assumere e integrare queste persone. Dobbiamo agire con politiche attive di inclusione dei flussi migratori per creare una società armonica.
Ma lei è leghista?
Sono “politicamente orfano”. Mi sono identificato e guardo con nostalgia al mio vecchio Partito liberale, che ci dava la possibilità di crescere con un’idea riformatrice della società e anche di confrontarci con una scuola di partito. Oggi sono in molti a dirsi liberali, ma se una volta il dirci liberali rischiava di isolarci oggi rischia di confonderci.
Vale anche per i cattolici? Ultimamente in quest’area c’è un particolare fermento.
Spesso liberali e cattolici sono stati più vicini di quanto si vuol far apparire, e forse lo sono anche oggi.
Dopo la finanza e gli aeroporti, un anno è mezzo fa si è dedicato ai giornali. Non solo per realizzare il sogno di diventare giornalista, immagino.
Mancava una vera voce del Nord Est. Non di chi fa il cronista del nostro territorio, ma una voce che sappia farsi interprete del nostro territorio. Per mettere in evidenza ciò che funziona e quello che non va, per farlo comprendere meglio. Di qui è nata l’idea di Nem, un gruppo multimediale pronto ad approfondire e combattere le sue battaglie, distribuendo i suoi contenuti in modo capillare grazie alla rete delle testate.
Secondo lei qual è, oggi, il compito di un editore?
Fare in modo che la società disponga degli strumenti necessari per decriptare ciò che capita. Per questo sono convinto che la stampa non può morire: la rete informa, ma i giornali sono il modo migliore per aiutare a capire le notizie.
Economicamente, il settore dell’informazione però non brilla.
Qualunque azienda, comprese quelle editoriali, devono guadagnare perché l’autonomia si crea e si mantiene anche attraverso dei conti sani. Dopodiché, quando penso a un progetto, l’utile non è l’obiettivo ma la conseguenza di un progetto ben realizzato. E credo siamo sulla buona strada: il primo bilancio l’abbiamo appena chiuso praticamente in pareggio.
Sarà contenta la vostra variegata compagine sociale, con aziende, associazioni, fondazioni. È stato difficile costruirla?
No: c’è stata una risposta importante da parte di soggetti che hanno dato prova di sapersi mettere insieme e di vincere i tradizionali campanilismi. È un segnale positivo non solo per noi: ci diciamo che il Nord-Est dovrebbe avere più peso, ed è vero, ma per averlo e per ottenere quello che reclamiamo dobbiamo dimostrarci capaci di operazioni di livello tale da giustificare le nostre pretese. In fondo, è stata anche l’idea che ha mosso il polo degli aeroporti: non è più il tempo dei campanili.
Parlando di finanza, non si può evitare un cenno alle scosse che attraversano il mondo assicurativo e bancario: che ne pensa? Voi per chi tifate fra i tanti giocatori in campo?
L’estrema vivacità del momento denota un sistema bancario, e più in generale finanziario, sano, che ha lavorato bene. Detto questo, ci sono così tante variabili e tante incognite per cui è difficile esprimere un’opinione netta. Mi auguro comunque che le decisioni siano guidate dalla competenza e dalla visione strategica, non da logiche di breve periodo o di contrapposizione tra azionisti.