venerdì 27 marzo 2020
La proposta di creare un'unità di «resilienza trasformativa» per rimbalzare in avanti
Enrico Giovannini

Enrico Giovannini - Archivio

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«Chi si aspettava chissà quale decisione concreta forse non conosce le dinamiche dei vertici europei. Non c’erano in ballo proposte da accettare, ma in tale occasione i leader erano chiamati a esprimere un orientamento chiaro e dare mandato alla Commissione europea di predisporre proposte per strumenti nuovi adatti ad affrontare l’emergenza, tra cui gli eventuali eurobond ». Enrico Giovannini - economista, statistico e portavoce dell’ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) - si aspetta risposte forti e unitarie in chiave europea.

Non basta la Bce?
Ovviamente no, perché un conto è la liquidità necessaria a gestire questa fase, mentre un altro discorso è lo stimolo della domanda per guidare una ripresa che dovrebbe essere 'green' e attenta ai più deboli. Serve, insomma, una risposta della politica fiscale. E l’Europa, attraverso strumenti innovativi come gli eurobond, può moltiplicare la capacità fiscale dei Paesi per evitare che questi ultimi abbiano problemi a finanziarsi sui mercati dei capitali. In questo momento di choc sistemico, occorre sviluppare soluzioni innovative per finanziare gli investimenti. Perché vanno condivisi i rischi, ma pure i possibili benefici.

Da statistico, lei come legge le curve epidemiologiche e i numeri che - purtroppo - abbiamo ormai imparato a conoscere?
Vari giorni fa, insieme ad alcuni colleghi, abbiamo suggerito di avere un approccio più alla 'coreana': ora il governo sembra orientato in questa direzione, gestendo anche i problemi di privacy. Oggi sappiamo che la curva dei contagi è poco significativa, anche perché non abbiamo un meccanismo di controlli a tappeto su cui poter contare.

Che cosa dobbiamo attenderci dal punto di vista sanitario?
Il fatto che i contagiati siano in realtà molti di più di quelli ufficiali è da un lato è un’ottima notizia, perché il tasso letalità sarebbe più basso di quanto appare, ma dall’altro lato genera un’incertezza enorme sulla gestione sanitaria.

Come giudica la reazione dell’Italia di fronte all’emergenza?
Ho sentito, anche alcuni medici, dire che l’Italia non aveva un piano contro le pandemie. È un’affermazione molto grave che chiama in causa non solo il governo attuale, ma anche i precedenti. In generale, dobbiamo imparare a sviluppare una cultura della preparazione alla gestione di una crisi prima che quest’ultima si verifichi. Adesso, comunque, oltre ad affrontare l’emergenza, è fondamentale organizzarsi per la ripartenza.

Il decreto 'Cura Italia' va migliorato?
Alcuni elementi sono positivi: ad esempio, l’impostazione universalistica delle tutele previste, che riguardano anche i lavoratori autonomi (che altrimenti sarebbero rimasti senza coperture). Assieme a Fabrizio Barca e al Forum Diseguaglianze e Diversita stiamo preparando un documento da presentare a Parlamento e Governo per chiedere alcune correzioni al decreto. Ad esempio, si potrebbe prevedere una maggiore selettività, sulla base della condizione reddituale e patrimoniale, nella sospensione dei pagamenti fiscali e nell’erogazione di bonus (come quello previsto per le baby sitter) per far sì che si vada a sostenere solo chi ne ha realmente bisogno. Stupisce, inoltre, che invece di usare o riadattare alle esigenze attuali strumenti esistenti (come il reddito di cittadinanza) se ne creino di nuovi (per esempio il reddito di ultima istanza).

Lei propone la creazione di un’unità di 'resilienza trasformativa' per affrontare l’emergenza. In che cosa consiste?
Un anno e mezzo fa, come ASviS, proponemmo per la Legge di Bilancio 2019 la creazione di un istituto pubblico di studi sul futuro per preparare il Paese ad affrontare eventuali choc o cogliere nuove opportunità. Il governo gialloverde, ai tempi, non lo ritenne un progetto interessante. Ora avanziamo la stessa idea, ma nel frattempo bisognerebbe creare, presso la Presidenza del Consiglio, un team di esperti di varie discipline che operi, accanto a quello che si occupa della crisi, per capire come orientare la ripresa per 'rimbalzare in avanti' e diventare migliori, non tornare indietro, visti i tanti problemi del Paese che tutti segnalavano tre mesi fa.

Qualche esempio?
Abbiamo decine di miliardi di sussidi, in parte dannosi all’ambiente e in parte favorevoli, che potrebbero essere orientati diversamente; c’è la necessità di capire in anticipo come sostenere i settori che potranno ripartire prima di altri (dal turismo interno alle costruzioni); il boom dello smart working e dello smart learning sono importanti opportunità per il futuro, ma in alcune aree interne del Paese la banda larga è inesistente, e quindi sarebbe urgente un investimento in questa direzione.

Lo sviluppo sostenibile resta prioritario?
Nei prossimi giorni uscirà un’analisi qualitativa dell’ASviS da cui si evincerà che il coronavirus impatterà negativamente su molti dei 17 obiettivi Onu, a partire da quelli socioeconomici. L’unica soluzione che abbiamo è quella di usare lo sviluppo sostenibile come base per la ripartenza e per disegnare le politiche di oggi e di domani. È un metodo che passa da scelte concrete. Ad esempio, un maggiore uso dello smart working potrebbe determinare un ridisegno del funzionamento delle città, dal sistema dei trasporti alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, con effetti benefici per l’ambiente e la qualità della vita delle persone. Insomma, se usassimo la 'lente' dello sviluppo sostenibile faremmo scelte migliori ora, evitando di sprecare risorse e di ripetere gli errori del passato.

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