venerdì 26 maggio 2017
Produceva frigoriferi ma voleva le automobili: ecco chi è Li Shufu, il miliardario proprietario della Geely che ha acquistato anche il marchio britannico
Il miliardario cinese Li Shufu, proprietario della Geely

Il miliardario cinese Li Shufu, proprietario della Geely

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Dopo Volvo, Pirelli, MG e parte del Gruppo Peugeot-Citroen, ora anche Lotus, prestigioso marchio inglese che deve la sua notorietà mondiale alla costruzione di monoposto per la Formula Uno, abbraccia la bandiera del Dragone. Non è una novità: i cinesi investono, trasformano, acquistano volentieri tutto ciò che non è cinese. Amano le grandi società, il calcio, le automobili. Pagano, qualche volta si pentono, difficilmente sbagliano. Soprattutto quando comprendono che snaturare aziende dal dna radicato e così diverso dal loro dopo averle rilevate, non paga quasi mai.

Emblematico il caso della Geely, il più grande gruppo automobilistico privato della Cina, che in queste ore ha perfezionato l’acquisizione del 49,9% della malese Proton e, di conseguenza, il controllo della britannica Lotus di cui Proton deteneva il 50,1% per 130 milioni di dollari. La Lotus, fondata nel 1952, è passata di mano più volte: nel 1986 alla General Motors, nel 1993 (attraverso la lussemburghese ACBN Holding) a Romano Artioli, patron della Bugatti, e nel 1996 alla malese Proton. Ora se la è aggiudicata all’asta la holding cinese che ha battuto la concorrenza di Renault, Psa e Suzuki. Si tratta dell’ennesimo tassello dell’avanzata del Paese della Grande Muraglia sul mercato automobilistico europeo: la stessa Geely nel 2010 aveva già acquistato la Volvo e, da allora, ne ha risollevato le sorti aziendali come prima non erano stati capaci di fare i precedenti proprietari sia svedesi sia americani.

Geely, in mandarino, significa “fortunato”. Come Li Shufu, fondatore e proprietario della holding che guida dal 1986. Singolare storia la sua: ama raccontare che da bambino, nella provincia dello Zhejiang dove è nato 54 anni fa, disegnava automobili sulla sabbia perché il padre contadino non aveva i soldi per comprargli i giocattoli. Poi si è laureato con una borsa di studio e un master in ingegneria. Grazie ad un prestito, ha fondato la Geely: produceva frigoriferi. Nel 1994 ha iniziato a fare moto, nel 1997 le auto. Quando nel 2013 decise di prendere un taxi, Li Shufu acquistò l’intera Manganese Bronze, l’azienda britannica sull’orlo del fallimento che produceva le mitiche auto pubbliche nere di Londra. Sette anni fa decise che gli piacevano le Volvo, marchio che sembrava alla frutta. Li Shufu invece staccò un assegno da 1,8 miliardi di dollari e dalla Ford si comprò lo storico costruttore svedese. Grazie alla cura cinese, Volvo dallo spettro del fallimento è tornata a macinare utili (785 milioni di dollari nel 2016) e l’anno scorso ha venduto 534 mila auto, record assoluto in 90 anni di storia.

Il segreto? Sta forse tutto in una frase attribuita allo stesso Li Shufu il giorno dell’acquisizione: «Sono sicuro che Volvo tornerà ai tempi gloriosi, com’è certo che la tigre tornerà sulle sue montagne...». Facendo capire che il gusto pacchiano e lontano anni luce dei cinesi in fatto di automobili non avrebbe condizionato la storia, il rigore minimalista e l’esperienza costruttiva svedese. «La tigre è un animale selvaggio – chiarì subito il neoproprietario – non si può confinare in uno zoo. La tigre resterà libera in Svezia...». Per le sue vetture infatti lavorano squadre di designer quasi esclusivamente europei, la sede operativa è rimasta a Goteborg, e il bagaglio tecnologico di Volvo ha permesso alla Geely di immatricolare l’anno scorso 766mila auto con un utile netto di 741 milioni di dollari (+126% rispetto al 2015) trasformando qualità ed estetica anche delle vetture che produce e vende solo sul mercato cinese.
Quel Paese, scriveva tre anni fa il “Times”, ha uno sogno: far diventare Shanghai la Detroit del ventunesimo secolo. Aspirazione ancora lontana per ciò che riguarda i modelli destinati al mercato interno, ma più che credibile riguardo ai capitali investiti in Europa. Soprattutto se la linea resterà quella di non snaturare stile, gusto e capacità costruttive dei brand che i cinesi acquistano. Quando il corrispondente del “Corriere della Sera” a Pechino, poche settimane fa, ha chiesto a Li Shufu cosa avrebbe voluto cambiare nelle prossime Volvo, si è sentito rispondere così: «Non saprei, credo nulla. Sa, io ho l’autista e in automobile mi siedo sempre dietro».

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