venerdì 25 agosto 2017
Per la prima volta dopo 10 anni crescita uniforme nei paesi Ue. Effetti positivi dai fenomeni migratori. A Jackson Hole il summiti dei banchieri centrali con le strategie per il futuro
Janet Yellen e Mario Draghi, alla quarantunesima edizione del simposio di Jackson Hole (Ansa)

Janet Yellen e Mario Draghi, alla quarantunesima edizione del simposio di Jackson Hole (Ansa)

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È stata la giornata di Janet Yellen e Mario Draghi, protagonisti della quarantunesima edizione del simposio di Jackson Hole, l'annuale simposio dei banchieri centrali che si tiene in Wyoming, organizzato dalla Federal Reserve Bank di Kansas City. Il tema di quest'anno è "Promuovere un'economia globale dinamica". La numero uno della Federal Reserve ha aperto la giornata (alle 16, ora italiana) con un discorso che è apparso ai più come una critica nei confronti dell'amministrazione Trump con sullo sfondo l'ipotesi della sua sostituzione (il mandato della Yellen scadrà a febbraio del 2018) con il consigliere economico di Trump, Gary Cohn. La presidente ha difeso le riforme del sistema finanziario che la Casa Bianca vuole abrogare per rispondere alle richieste di Wall Street: “ricordiamoci il 2008" ha ammonito. "Non possiamo essere sicuri che non ci saranno nuove crisi" ma se "ci ricordiamo i danni" che l'ultima ha creato e"agiamo di conseguenza, possiamo sperare che il sistemafinanziario e l'economia sperimenteranno meno crisi erecupereranno più velocemente risparmiando le famiglie e leaziende". La Yellen ha rivendicato i "sostanziali progressi" compiuti nel centrare ildoppio mandato della Fed della massima occupazione e dellastabilità dei prezzi e ha sottolineato come sistema finanziario sia "sostanzialmente" più sicuro oggi. "Qualsiasi cambio alle regole decise dopo la crisi finanziaria - è l'auspicio di Yellen, un indirettomessaggio a Trump - dovrebbe essere modesto".

È stata poi la volta di Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea. Nessun cenno al QE, il programma di acquisto titoli della Banca centrale europea, al Tasso ufficiale di sconto o all’inflazione: dal raduno dei banchieri a Jackson Hole, Stati Uniti, il presidente della Bce, Mario Draghi, intervenuto dopo la "collega" Janet Yellen, sceglie di criticare duramente chi si oppone all’apertura dei mercati. E, dunque, di lanciare un messaggio proprio al presidente Donald Trump, che ha fatto del protezionismo un vessillo della nuova politica economica americana.

Draghi nel discorso ufficiale non ha parlato, quindi, di politica monetaria. E l’euro è immediatamente schizzato ai massimi dal 2015 sul dollaro a quota 1,1922: i mercati hanno dunque interpretato il "silenzio" come un rinvio del cosiddetto "tapering", l’uscita graduale dalle manovre espansive.

Una svolta protezionistica a livello globale, ha spiegato Draghi, costituirebbe «un grave rischio» per l’economia. Un rischio, ha aggiunto, «particolarmente acuto alla luce delle sfide strutturali che le economie avanzate devono affrontare». Draghi ha sottolineato come negli ultimi anni «la tendenza all’apertura dei mercati sia stata indebolita» E ciò è dovuto «non tanto alla convinzione che i mercati aperti non creino più ricchezza, ma alla percezione che gli effetti collaterali dell’apertura superino i suoi vantaggi». Preoccupazioni, queste, che vanno superate. Per raggiungere un maggiore dinamismo, ha osservato, giusto che si pensino alle politiche interne, ma «è altrettanto importante un impegno a lavorare assieme attraverso le istituzioni multilaterali». Siccome i timori di equità e sicurezza riflettono «una mancanza di fiducia nella regolamentazione e nell’applicazione di altri Paesi» alle regole, uno dei principali obiettivi per tali istituzioni è proprio quello di «creare una convergenza normativa» e quindi «aumentare la fiducia tra i Paesi». E una delle aree più importanti su cui applicare tale convergenza, è proprio quella finanziaria.

Nei paesi Ocse crescita sincronizzata. La grande recessione sembra essere finalmente alle spalle e l'economia mondiale inizia a crescere in maniera uniforme. Per la prima volta da dieci anni a questa parte le maggiori economie del mondo crescono in modo sincronizzato grazie ai tassi di interesse bassi e le politiche monetarie di stimolo delle banche centrali, ma anche all'allentarsi di crisi che hanno pesato per anni, quali la Grecia e il Brasile. Tutti i 45 paesi monitorati dall'Ocse cresceranno quest'anno (secondo quanto riporta il Wall Street Journal) e 33 di questi sperimenteranno un'accelerazione della ripresa rispetto all'anno scorso. È la prima volta dal 2007 che questo si verifica. Negli ultimi 50 anni la crescita simultanea fra le economie dell'Ocse è stata un'eccezione: è accaduto nel decennio scorso, alla fine degli anni 1980 e per un breve periodo nel 1973 prima della crisi petrolifere.

Il Pil globale cresce quasi del 3%. La crescita mondiale è stata fotografata anche da Euler Hermes, leader mondiale dell’assicurazione crediti. Il Pil globale è salito al suo livello più alto durante la prima metà del 2017. Dall’ultimo report, intitolato “A Breeze of Growth”, emerge che nel complesso il ritmo di crescita globale è buono, nonostante un risultato deludente da parte degli Stati Uniti, una prospettiva europea rassicurante ed una stabilizzazione dei mercati emergenti. Prevista una crescita del Pil globale del 2,9% per il 2017 e per il 2018, al di sotto del 3% per il 7° anno consecutivo. Revisioni al rialzo sono state fatte per l’Eurozona (+0.2% a +1.9%), la Cina (+0.4% a 6.7%) e il Giappone (+0.1% a 1.3%). Queste sono controbilanciate da revisioni al ribasso per gli Stati Uniti (-0.2% a +1.2%), il Medio Oriente (-0.2% a +2.1%) e il Sud Africa (-0.4% a +0.6%).

Fenomeni migratori una risorsa per lo sviluppo. Anche dai fenomeni migratori arriva una spinta alla crescita dell'economia ma servono misure adeguate per sostenerla e soprattutto maggiore cooperazione. E' questo il succo del rapporto Ocse "Prospettive sullo Sviluppo Globale 2017" che pone l’accento sul crescente peso economico dei paesi in via di sviluppo, riferendosi al fenomeno di un “benessere che si sposta”. Il rapporto evidenzia le principali cause di migrazione, analizza l’impatto sui paesi di origine e di destinazione, formula raccomandazioni ai governi e alla comunità internazionale.

Il primo dato è che lo sviluppo economico globale ha portato a un aumento dei flussi migratori. Nell’ultimo ventennio la percentuale della popolazione mondiale che non risiede nel proprio Paese di origine è salita dal 2,7% al 3,3%. Parallelamente, i Paesi in via di sviluppo hanno cominciato a registrare una rapida e sostenuta crescita, con picchi nel 2009. Sono i Paesi di destinazione ad alto reddito ad attirare i flussi migratori, richiamando circa i due terzi dei migranti globali. Questo probabilmente perché è aumentata la differenza assoluta tra il reddito pro-capite medio dei Paesi ad alto reddito e quello dei Paesi a basso e medio reddito, rendendo i primi ancora più attrattivi. Discorso diverso per chi non lasciano volontariamente il paese di origine, ma in seguito a a guerre o violenze. A differenza dei migranti internazionali, l’87% dei rifugiati (16,1 milioni nel 2015) sono accolti in paesi in via di sviluppo.

La migrazione può essere motore di sviluppo a condizione che si attuino maggiori sforzi. Le azioni pubbliche secondo l'Ocse devono ruotare attorno a tre cardini: politiche che integrino la migrazione e lo sviluppo sia nei paesi di accoglienza che in quelli d'origine, coerenza delle politiche e delle istituzioni, con un coordinamento tra i vari livelli di governo, e infine rafforzamento della cooperazione internazionale, sia attraverso accordi bilaterali che attraverso il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile.

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