Semafori, Tigrai e bisonti: le guerre affamano con le terre bruciate

Il Global Conflict Tracker, messo a disposizione dal Cfr (Council on Foreign Relation) mappa i conflitti nel mondo e i loro effetti
December 21, 2021
Semafori, Tigrai e bisonti: le guerre affamano con le terre bruciate
Ansa | Rifugiati etiopi della regione del Tigrai in fila per varcare il confine con il Sudan
Nel mondo si combatte, la guerra esiste e viene monitorata da diversi osservatori; chi vuole informarsi lo può fare rapidamente e bene. C’è per esempio il Global Conflict Tracker, messo a disposizione dal Cfr (Council on Foreign Relations, cfr.org), un centro di ricerca statunitense specializzato in relazioni internazionali.
Semafori. Come molti altri, il Cfr offre uno sguardo sempre aggiornato e lo fa non nascondendo le proprie priorità, aspetto particolarmente interessante per chi fa il mio mestiere. Credo che a tutti gli storici piaccia immaginare come i colleghi del futuro porteranno avanti il lavoro, e per questo trovo apprezzabile la trasparenza del Cfr. Sul sito, infatti, una classica ed efficace grafica a semaforo misura l’impatto dei conflitti in atto sugli interessi statunitensi: rosso quando tale impatto è critico, arancione se è significativo, verde ove limitato. Sembra ci si dica: ecco le fonti, usatele liberamente e sappiate che noi le interpretiamo così. Gli storici del futuro, insomma, sapranno che quei documenti sono analizzati sotto la lente di quello che importa agli Stati Uniti e potranno farne uso, buono o cattivo che sia, senza temere raggiri in origine. Il secondo criterio di rappresentazione della guerra ne riporta lo status oggettivo, indipendentemente dallo sguardo americano: in risoluzione (verde), stabile (arancione), in peggioramento (rosso). Ci sono altre possibilità di approfondimento, ma limitiamoci qui allo sguardo d’assieme che rivela un planisfero nel quale i conflitti riguardano soprattutto Africa e Medio Oriente, gli interessi statunitensi sono variamente toccati e non ci sono miglioramenti in vista.
Tigrai. Nelle ultime settimane, i miei accessi all’osservatorio CFR sono aumentati. Il motivo è la sempre più preoccupante situazione dell’Etiopia (verde per l’impatto sugli Stati Uniti, rosso per lo status), dove è in atto una spietata guerra civile. Il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha appena vinto il premio Nobel per la pace: era il 2019 e si fa fatica a usare il passato remoto per ricordare l’evento. Lo ha ottenuto in seguito al cessate il fuoco che ha chiuso il lungo conflitto tra il suo Paese e l’Eritrea. Ma è bastato pochissimo tempo per vedere il sorgere di una nuova guerra, interna all’Etiopia e scoppiata nella regione settentrionale del Tigrai ( Tigrè) tra il Governo Federale guidato da Abiy Ahmed e il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai. Le vittime sono già decine di migliaia e come quasi sempre accade, chi muore di più non sono i combattenti, ma i civili. Cadono anche perché mancano i viveri: una delle armi più efficaci della storia militare è affamare il nemico, togliergli le risorse necessarie a soddisfare i bisogni primari, bruciare la terra sotto i suoi piedi. La voce di organizzazioni internazionali e agenzie umanitarie ormai è univoca: nel Tigrai si sta concretizzando il rischio di una terribile carestia. L’Onu ha accertato che da settimane gli aiuti non arrivano, hanno pure denunciato le autorità federali etiopi per avere fermato e trattenuto numerosi convogli di aiuti alimentari destinati a varie organizzazioni attive nel Tigrai. Sono sempre più le persone a soffrire la fame, che siano in armi o meno poco importa a chi combatte sull’altro fronte.
Bisonti. La storia propone numerosi esempi di guerre combattute in questa maniera, pensiamo agli assedi sotto le mura di città antiche o medievali. Pensiamo agli abitanti di Mosca, capaci di fermare l’avanzata di Napoleone bruciando tutto dietro sé, per impedire alle truppe francesi di approvvigionarsi. Uno degli esempi più terribili di questa tattica di combattimento ci riporta a un conflitto conclusosi con il totale abbattimento del nemico: le cosiddette Guerre Indiane dell’America settentrionale, sviluppatesi in maniera particolarmente intensa e violenta negli anni compresi tra la fine della Guerra Civile (1865) e il massacro di Wounded Knee (1890), ultimo atto del conflitto tra 'indiani' e 'giacche blu'. Citavo sopra i documenti sui quali lo storico costruisce il proprio lavoro, ed è proprio su di un documento che è opportuno basarsi per descrivere la strategia dell’esercito statunitense. Andiamo al 1874, quando l’espansione dei coloni europei verso la costa americana occidentale era ostacolata dalle tribù delle pianure, quelle che costruivano il proprio sistema di sussistenza sulla caccia al bisonte, occupazione prettamente maschile. Funzionava in questo modo: si uccidevano solo gli animali necessari per rifornirsi di cibo, nell’immediato e per l’inverno. La carne veniva messa a seccare al sole, conservati il midollo e il grasso. Le donne lavoravano le budella del bestiame per ottenerne corde per gli archi e legacci; usavano le corna per ricavarne cucchiai e ciotole. Le pelli venivano conciate per ricoprire le tende e per farne abiti e mocassini. La lana tratta dalla conciatura veniva tessuta per costruire funi e cinture. I bisonti, però, in quegli anni stavano scomparendo: dei 3.700.000 capi abbattuti tra 1872 e 1874, solo 150.000 erano stati uccisi dagli indiani. Quando un gruppo di texani, preoccupati delle possibili reazioni ostili dei nativi alla strage, chiese al generale statunitense Philip Henry Sheridan se non si dovesse fare qualcosa per interrompere la mattanza perpetrata dai cacciatori bianchi, lui rispose: «Lasciateli uccidere, scuoiare e vendere finché i bisonti saranno sterminati, perché questo è l’unico modo per ottenere una pace duratura e per permettere alla civiltà di avanzare». Dal punto di vista del generale Sheridan, affamare il nemico funzionò. Fu anche a causa della strategia di azzeramento delle risorse nemiche che il suo esercito vinse la guerra. A che prezzo? Il sacrificio di spesso conniventi cacciatori e, soprattutto, l’annientamento non di una, ma di più civiltà.

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