L'economia fraterna contro il darwinismo sociale

Bruni, Santori e Zamagni rileggono la storia del pensiero economico con l’approccio umanistico italiano che è molto diverso da quello anglosassone oggi in profonda crisi
January 30, 2022
L'economia fraterna contro il darwinismo sociale
Il volume Lezioni di Storia del pensiero economico che ora viene presentato al giudizio del lettore nasce da una duplice insoddisfazione. Per un verso, la presa d’atto dell’inadeguatezza delle categorie di pensiero del mainstream economico di far presa sulla realtà odierna. E questo a causa dei limiti seri di una visione di mercato e di una concezione dell’impresa fondata sull’individuo, anziché sulla persona, e di una ricerca compulsiva della ricchezza al posto della pubblica felicità. Si ignorano così beni economici fondamentali per il nostro benessere quali i beni relazionali, i beni comuni, i beni di gratuità. Per l’altro verso, l’insoddisfazione per come continua ad essere insegnata, salvo rare eccezioni, la storia del pensiero economico nel nostro Paese. Il che rappresenta un autentico paradosso: in Italia, il Paese che ha dato i natali al paradigma dell’economia civile, la linea di pensiero inaugurata a Napoli da Antonio Genovesi continua ad essere ignorata, mentre non lo è all’estero. Come viene documentato nella Parte Terza di questo libro, il trentennio 1750-80 può essere definito, con Bousquet, l’age d’or del pensiero economico italiano. Pare proprio che l’Illuminismo italiano (diverso da quello francese e da quello scozzese) abbia scelto l’economia come suo privilegiato banco di prova.
Tratto comune degli illuministi italiani (Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, Gaetano Filangeri, Giacinto Dragonetti a Napoli e Pietro Verri, Cesare Beccaria, Giandomenico Romagnosi a Milano) è l’insistenza sulla felicità pubblica come oggetto primario di studio della scienza economica; la scuola economica inglese sostituirà alla felicità pubblica la 'Ricchezza delle nazioni'. È nel contesto della primavera napoletana dell’era di Carlo III di Borbone che prende a svilupparsi il programma di ricerca dell’economia civile, vera e propria ripresa, in chiave moderna, dei temi tipici dell’umanesimo civile del XV secolo. Nel 1753, l’Università di Napoli istituisce la prima cattedra universitaria al mondo di economia, denominandola 'Economia civile e meccanica' e chiamando l’abate Genovesi a ricoprirla. Due le idee centrali che l’umanesimo civile italiano apporta all’economia. Da un lato, l’affermazione secondo cui la ricchezza va ricercata non come fine in sé, ma come strumento di incivilimento e di miglioramento del benessere della popolazione. Celebre la massima di Genovesi: «È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri». Dall’altro lato, l’idea della 'fede pubblica' come principale risorsa per lo sviluppo economico. «Niente è più necessario – scrive ancora Genovesi – ad una grande nazione quanto la fede pubblica… Questa parola fides significa corda, che collega e unisce. La fede pubblica è dunque il vincolo delle famiglie unite in vita compagnevole».
Nelle Lezioni X-XV, ci occupiamo di porre in risalto i più rilevanti elementi di differenziazione tra il paradigma italiano dell’economia civile e quello anglosassone dell’economia politica, quale si forma nella seconda metà del Settecento con Adam Smith e che si svilupperà, fino ad acquisire una posizione egemonica, nella seconda metà dell’Ottocento dopo la Rivoluzione Marginalista. Un primo elemento ha a che vedere con l’assunto antropologico. L’economia civile rifiuta la categoria di homo oeconomicus (di un soggetto cioè totalmente autointeressato e pienamente razionale) che, al contrario, costituisce la vera infrastruttura filosofica del paradigma rivale. È durante l’Ottocento che si consolida nella cultura occidentale una linea di pensiero che concepisce il mercato come l’unica istituzione in grado di conciliare soddisfacimento dell’interesse personale e perseguimento del benessere collettivo grazie all’operare della mano invisibile. (È questa la celebre metafora introdotta da Adam Smith, il quale se ne serve per significare proprio il contrario di quanto , successivamente, intere generazioni di economisti attribuiranno ad essa).
Il genovesiano 'Homo homini natura amicus' (ogni uomo è, per natura, amico dell’altro uomo') è, invece, l’assunto antropologico del programma di ricerca dell’economia civile, secondo cui è homo reciprocans la categoria di riferimento di un discorso che voglia tradurre in pratica la nozione di individualità relazionale; una nozione in grado di far stare assieme esercizio della scelta (l’individualità) e relazione con l’altro (la socialità). Di un secondo elemento di distinzione ci occupiamo nella Parte Terza del libro, e cioè del deciso rifiuto da parte dell’economia civile della tesi del NOMA ( Non-overlapping magisteria) nella ricerca economica. Si tratta di una tesi, per primo difesa in ambito economico, nel 1829 da Richard Whately, influente cattedratico all’Università di Oxford e vescovo della Chiesa anglicana, secondo cui la sfera dell’economia va tenuta separata da quella dell’etica, se si desidera che la prima possa ambire ad acquisire lo statuto di disciplina scientifica, positivisticamente intesa. Dapprima osteggiata da pensatori del calibro di J.S. Mill, la tesi della 'grande separazione' verrà poi accolta con favore dai protagonisti della scuola di pensiero neoclassica e da allora supinamente sottoscritta, salvo rare eppure notevoli eccezioni, come qualcosa di scontato. Donde la celebre divisione di ruoli: l’etica è il regno dei valori; la politica, il regno dei fini; l’economia il regno dei mezzi, che in quanto tale deve preoccuparsi solo di giudizi di efficienza. È merito del pensiero economico civile aver mostrato quanta ipocrisia si celi in questo riduzionismo metodologico, solo in apparenza innocuo, e quanto male esso abbia finito col produrre - si pensi solo alla distruzione degli ecosistemi e all’aumento endemico delle diseguaglianze sociali. Da ultimo (ma non per ultimo), i due paradigmi di cui ci stiamo occupando si differenziano rispetto al modello di ordine sociale da essi contemplato. Mentre per l’economista politico Stato e Mercato sono le due istituzioni necessarie e sufficienti per assicurare il progresso, l’economista civile ritiene altrettanto indispensabile un terzo pilastro, quello della Comunità, costituita dal variegato insieme dei corpi intermedi della società.
Per l’economista civile, infatti, il fine da perseguire è quello di chiedere al mercato non solo di essere in grado di produrre ricchezza, ma anche di porsi al servizio dello sviluppo umano integrale, di uno sviluppo che tenga in armonia tre dimensioni: quella materiale della crescita, quella socio-relazionale, quella spirituale. Invero, il mercato acivile mentre può assicurare un avanzamento sul fronte della prima dimensione, non riesce a fare altrettanto rispetto alle altre due. Il mercato acivile è bensì compatibile con la giustizia commutativa e con la libertà in senso negativo (la libertà di agire), ma non lo è con la giustizia distributiva, né con la libertà in senso positivo (la libertà di conseguire). Del pari, mentre il mercato acivile può 'andare a braccetto' con assetti politici non democratici, così non è con il mercato civile. Inoltre, la infrastruttura concettuale del paradigma dell’economia politica non consente che si possa andare oltre la versione orizzontale del principio di sussidiarietà; ma sappiamo che la versione piena di tale principio è quella circolare, secondo cui ente pubblico, business community, società civile organizzata cooperano tra loro, con pari dignità, in vista del bene comune. (È bene ricordare che è alla scuola di pensiero francescana e, in particolare, a Bonaventura di Bagnoregio che si deve la prima formulazione del principio di sussidiarietà circolare come modello di organizzazione dell’ordine sociale). La ricerca scientifica, soprattutto quella in ambito socio-economico, implica sempre responsabilità e rischi. Oggi nessun serio studioso crede più alla possibilità di separare l’analisi dalle visioni del mondo in economia, dato che le teorie economiche non sono strumenti neutrali di pura conoscenza. Non sono neutrali perché i giudizi di fatto non sono separabili dai giudizi di valore, ma esprimono sempre punti di vista particolari dietro i quali si nascondono – a volte molto bene – interessi di parte non sempre leciti. Neppure sono di pura conoscenza, perché le teorie sul comportamento dell’uomo inducono sempre, tanto o poco, cambiamenti nell’uomo, come da tempo insegna la tesi della doppia ermeneutica. Ecco perché abbiamo voluto scrivere queste Lezioni: perché non accettiamo quella versione del darwinismo sociale - che di questi tempi ha ripreso servizio – efficacemente resa dal distico schumpeteriano della 'distruzione creatrice'.
È questa una versione che riduce le relazioni economiche tra persone a relazioni tra cose e queste ultime a relazioni tra merci. È merito grande del paradigma dell’economia civile quello di suggerire che c’è posto, in economia, per declinare, anche in termini teorici, il principio di fraternità, facendolo diventare un asse portante dell’ordine sociale. Non è capace di futuro la società in cui si dissolve la pratica della fraternità; non c’è felicità nella società in cui esiste solamente il 'dare per avere' – come indica la visione liberal-individualista – oppure il 'dare per dovere', come vuole la visione statocentrica della società. Viviamo, soprattutto in economia, una crisi seria di pensiero pensante, non certo di quello calcolante; crisi che sta mettendo a dura prova la tenuta del nostro modello di civilizzazione. Mi piace terminare con l’aforisma di Joseph Conrad, quanto mai pertinente al caso presente: «Si scrive solo una metà del libro; dell’altra metà si deve occupare il lettore».

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