Cresce l'occupazione ma i poveri non calano: perché?

Lavoratori poveri, aumento dei salari inferiore all'inflazione e cronicizzazione del bisogno. Sbagliato pensare alla povertà in Italia come a un "falso mito"
October 31, 2025
Un anziano fruga tra i rifiuti del mercato di piazza S. Cosimato a Trastevere, a Roma per cercare del cibo da mangiare
Un anziano fruga tra i rifiuti del mercato di piazza S. Cosimato a Trastevere, a Roma / ANSA
I dati Istat, relativi al mese di settembre, confermano la crescita dell’occupazione, sostanzialmente ininterrotta da oltre due anni. Tanto che il numero di lavoratori con un impiego ha toccato il livello record di 24,2 milioni e il tasso di occupazione ha raggiunto il 62,7%. Eppure, nei giorni scorsi lo stesso Istituto di statistica ha stimato che siano oltre 2,2 milioni le famiglie in condizione di povertà assoluta – l’8,4% di quelle residenti – per un totale di 5.744.000 persone, pari al 9,8% della popolazione. Percentuali sostanzialmente simili a quelle registrate nel 2023, quando erano pari rispettivamente a 8,4% e 9,7%, ma con 50mila persone in povertà in più in termini assoluti. Come si giustifica questa contraddizione tra crescita degli occupati e una povertà che non diminuisce?
Una prima risposta, diffusa in alcune analisi, è che la situazione non sia grave come la si dipinge. La riprova starebbe nelle ultime rilevazioni a proposito della percentuale di popolazione a rischio povertà. In media, infatti, l’Italia ha il 23,1% di cittadini che rischiano la povertà e l’esclusione sociale, poco al di sopra di quanto non si verifichi in Germania con il 21,1% e in Francia col 20,5%. Inoltre, a fronte di territori del Nord che si caratterizzano per un rischio di cadere in miseria decisamente basso, addirittura ai vertici della “classifica” europea, il problema riguarderebbe in maniera consistente e drammatica solo il Sud, con Calabria, Campania e Sicilia a registrare un rischio povertà tra il 40 e il 48,8% (quasi la metà della popolazione). Ragion per cui si sostiene che la situazione nel nostro Paese sta nettamente migliorando, tanto da parlare di “falso mito della povertà” e che al massimo la questione riguarderebbe solo il Mezzogiorno, dove andrebbero concentrati interventi e investimenti.
Eppure le statistiche di Istat, Eurostat e Caritas Italiana fotografano un’immagine diversa: la povertà nel nostro Paese, infatti, risulta ancora molto consistente, diffusa e, quel che forse è peggio, sempre più radicata e strutturale. Mentre l’interpretazione ottimistica di alcuni indici finisce per risultare fuorviante. Prendiamo ad esempio l’indicatore europeo AROPE (At Risk of Poverty or Social Exclusion), spesso citato come il più attendibile. In realtà misura la disuguaglianza, non la povertà vera e propria. Combina tre elementi: reddito, intensità lavorativa e deprivazione materiale e sociale. Il primo indicatore è relativo e dipende dal reddito mediano. Il secondo presume che più ore lavorate significhino meno povertà, ignorando la crescita dei working poor – ­i lavoratori che percepiscono salari troppo bassi per vivere dignitosamente – che da noi sono ben il 21% dopo che all'ondata inflazionistica non è corrisposto un altrettanto robusto aumento degli stipendi. Il terzo indicatore, la deprivazione materiale, è stato ampliato negli anni, includendo anche aspetti sociali e diventando così meno efficace nel rappresentare le difficoltà reali. Le misurazioni relative, come appunto l’AROPE, infatti, possono risultare fuorvianti: migliorano se tutti diventano più poveri, peggiorano se la crescita è ineguale. Dunque non danno il polso di chi sta veramente peggio.
Per contro, invece, i dati Istat segnalano che dal 2008 a oggi la povertà assoluta in Italia è triplicata, passando dal 3,4% al 9,8% della popolazione. E la composizione è cambiata: aumentano i poveri anziani, le famiglie in affitto (che hanno un rischio cinque volte più alto rispetto a chi possiede casa), quelle con più figli e gli stranieri, per cui l’incidenza è quasi tripla. Sul campo, la rete Caritas conferma questa tendenza: tra il 2014 e il 2024 le persone aiutate dai suoi centri sono aumentate del 62,6%, con un incremento ancora più forte al Nord (+77%). Ma non è solo una questione di numeri: cresce anche la profondità del bisogno. Oggi, in media, ogni persona assistita incontra la Caritas otto volte l’anno, il doppio rispetto a dieci anni fa. La povertà, insomma, non è più un incidente temporaneo: è diventata una condizione stabile e trasversale.
E non è neppure vero che il dramma povertà riguardi solo la cronica fragilità del Mezzogiorno. Oggi, infatti, quasi la metà dei poveri assoluti vive nel Nord Italia (44,5%), una quota che supera quella del Mezzogiorno (39%). Il motivo è duplice: da un lato, il costo della vita più alto, dall’altro la stagnazione dei redditi. Anche chi lavora o ha un’occupazione stabile, infatti, può trovarsi in difficoltà con affitti, bollette o debiti. Nei centri Caritas del Nord le richieste di aiuto aumentano ogni anno, e sempre più spesso arrivano da persone che fino a poco tempo fa non si sarebbero mai considerate “bisognose”.
E qui si apre il tema delle politiche, dei supporti e dei sussidi. Le statistiche ufficiali si basano sui consumi e sul costo della vita, mentre le politiche pubbliche – come l’Assegno di Inclusione o il vecchio Reddito di cittadinanza – si fondano su criteri ISEE e soglie di accesso diverse. Il risultato è che molti poveri oggi restano esclusi dagli aiuti: secondo le stime, solo la metà delle famiglie in povertà assoluta ha beneficiato del Reddito di cittadinanza e nel 2024 la copertura dell’Adi è stata ancora inferiore.
Riassumendo: negli ultimi quindici anni la povertà in Italia è cresciuta e si è radicata. Oggi una persona su dieci vive in povertà assoluta e una su quattro è a rischio di esclusione sociale. La rete Caritas parla di un fenomeno «diffuso, intenso e persistente»: si cade facilmente in povertà, ma è sempre più difficile risalire. Non è quindi un’emergenza passeggera, ma un problema strutturale che riguarda la qualità del lavoro, la tenuta del welfare e la coesione del Paese. Riconoscerne la gravità non significa essere catastrofisti, ma realisti e responsabili verso la comunità. Solo guardando la realtà per quella che è, infatti, si possono costruire politiche capaci di restituire dignità, opportunità e futuro a chi oggi è rimasto indietro.

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