Leone XIV: «Io con i migranti, la Chiesa non resta in silenzio»
Durante l'Udienza generale oggi il Papa ha ricordato che «nessuna notte è eterna» e poi, parlando con il vescovo di El Paso in un incontro privato, ha espresso vicinanza ai migranti sofferenti per il timore delle deportazioni di massa al confine con gli Stati Uniti.

«Nessuna caduta è definitiva, nessuna notte è eterna, nessuna ferita è destinata a rimanere aperta per sempre». Nella catechesi di stamattina, durante l’Udienza generale in piazza San Pietro, papa Leone XIV ha continuato a mettere in risalto la misericordia di Dio. Un amore «umile», gratuito e perseverante, quello divino, che stride sempre più con il clima di violenza e i toni bellici che continuano a crescere nel mondo. «Per quanto possiamo sentirci lontani, smarriti o indegni, - ha sottolineato il Papa nella sua meditazione sul Vangelo dei discepoli in Emmaus - non c’è distanza che possa spegnere la forza indefettibile dell’amore di Dio».
Davanti alla sofferenza dei migranti «la Chiesa non resta in silenzio»
Continuano il ciclo di catechesi giubilari sulla “Speranza”, Leone XIV si è soffermato in particolare, davanti a 60mila fedeli pellegrini arrivati da ogni parte del mondo, su uno degli «aspetti sorprendenti della Risurrezione di Cristo: la sua umiltà», e sul tema del “Riaccendere”. Tra loro anche migliaia di religiosi, religiose e consacrati, a Roma per il Giubileo della vita consacrata che inizia oggi, che il Papa ha ringraziato «per il prezioso servizio al Vangelo e alla Chiesa» nelle «tante frontiere del mondo moderno». Di queste una delle più note per la dura situazione di chi emigra è quella del confine tra Stati Uniti e Messico, e stamattina il Papa, durante un incontro privato, rivolgendosi al vescovo della diocesi di El Paso, Mark Joseph Seitz e agli attivisti di Hope Border, impegnati con i migranti sempre più intimiditi dalle deportazioni di massa della presidenza Trump, ha riferito che «la Chiesa non può rimanere in silenzio di fronte all’ingiustizia». La delegazione statunitense ha mostrato al Papa un video nella quale i migranti parlano delle loro paure. Le stesse di cui parlano nelle lettere che il gruppo ha consegnato a Leone XIV.

Il Rosario quotidiano per la pace
All’indomani del secondo anniversario della strage di Hamas, e dell’aggressione israeliana nella Striscia di Gaza, le parole di Prevost hanno risuonato con ancora più forza. Il pensiero per la pace, infatti, non smette di essere al centro degli interventi del Papa. A tutti stamttina ha ricordato che il mese di ottobre «è dedicato alla preghiera del Santo Rosario», che ha invitato «a recitare ogni giorno per la pace nel mondo». Ai fedeli arabi, sempre il Papa, ha chiesto di aprire i «cuori al Signore Risorto», il quale, «con la Sua umile presenza, illumina il nostro cammino, ravviva la nostra speranza e trasforma ogni dolore della nostra vita in un’opportunità di gioia e di gratitudine».
La Resurrezione cambia il "sapore" della vita
Lontano da ogni gesto impositivo, Gesù risorto non «fa nulla di spettacolare per imporsi alla fede dei suoi discepoli», perché “imporre” non è un verbo che fa per Dio. «Non si presenta circondato da schiere di angeli, - ha spiegato - non compie gesti clamorosi, non pronuncia discorsi solenni per svelare i segreti dell’universo», ma «preferisce il linguaggio della prossimità, della normalità, della tavola condivisa». È proprio nei gesti umani, semplici, più comprensibili, che Gesù si rivela agli uomini e alle donne, come ai discepoli che Emmaus, che lo hanno riconosciuto nello spezzare il pane. «Gesù risorto mangia una porzione di pesce davanti ai suoi discepoli: - ha sottolineato Prevost - non è un dettaglio marginale, è la conferma che il nostro corpo, la nostra storia, le nostre relazioni non sono un involucro da gettare via. Sono destinate alla pienezza della vita». Nella Pasqua di Cristo, «tutto può diventare grazia», anche «le cose più ordinarie», e la Risurrezione, ha aggiunto, «non sottrae la vita al tempo e alla fatica, ma ne cambia il senso e il “sapore”». Ogni gesto «compiuto nella gratitudine e nella comunione» dunque «anticipa il Regno di Dio».
C’è un ostacolo però, ha messo in guardia il Papa, che impedisce «di riconoscere questa presenza di Cristo nel quotidiano», ed è la «pretesa» che «la gioia debba essere priva di ferite». Gesù, invece, camminando accanto ai discepoli di Emmaus, tristi per la sua morte, «li aiuta a comprendere che il dolore non è la smentita della promessa, ma la strada attraverso cui Dio ha manifestato la misura del suo amore». Quando lo riconoscono durante la cena, poi, si dicono tra loro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto?» (Lc 24,32). Da qui la grande scoperta che non esiste storia «tanto segnata dalla delusione o dal peccato», ha continuato Prevost, «da non poter essere visitata dalla speranza», perché per quanto «possiamo sentirci lontani, smarriti o indegni, non c’è distanza che possa spegnere la forza indefettibile dell’amore di Dio».
Non è facile, però sentirsi degni di un amore così. A volte, infatti, «pensiamo che il Signore venga a visitarci soltanto nei momenti di raccoglimento o di fervore spirituale, quando ci sentiamo all’altezza, quando la nostra vita appare ordinata e luminosa». Cristo risorto, invece, «si fa vicino proprio nei luoghi più oscuri: nei nostri fallimenti, nelle relazioni logorate, nelle fatiche quotidiane che ci pesano sulle spalle, nei dubbi che ci scoraggiano», proprio perché «nulla di ciò che siamo, nessun frammento della nostra esistenza gli è estraneo». Caratteristica del Dio cristiano è proprio la sua «infinita delicatezza» ha concluso il Papa, «che chiede di lasciarci riscaldare il cuore» proprio mentre «percorriamo le nostre strade, quelle del lavoro e dell’impegno, ma anche quelle della sofferenza e della solitudine».
In questo, però, c’è un impegno da prendere. Davanti a un Dio che desidera soltanto farsi nostro compagno di strada e accendere in noi la certezza che la sua vita è più forte di ogni morte», occorre che ciascuno scelga di «non pretendere una vita senza prove, di scoprire che ogni dolore, se abitato dall’amore, può diventare luogo di comunione». Come i discepoli di Emmaus, Leone ha invitato tutti a tornare a casa «con un cuore che arde di gioia», una «gioia semplice, che non cancella le ferite ma le illumina».
I saluti dopo l’Udienza generale
Il Papa ha salutato i pellegrini di lingua francese, provenienti dall'Isola Maurizio, dal Burkina Faso, dal Gabon, dal Benin, da Haiti e dalla Francia. A loro ha chiesto di «comunicare a quanti soffrono nel mondo la Vita nuova del Signore parlando il linguaggio della carità e della fraternità verso tutti». Poi ha dato il benvenuto ai fedeli di lingua inglese, spagnola, portoghese, polacca, tedesca e cinese, e rivolto un saluto ai pellegrini croati, specialmente quelli pervenuti dalla Croazia e dalla Bosnia ed Erzegovina, in occasione del loro pellegrinaggio nazionale nell’anno giubilare, accompagnati dai Vescovi.
Infine il saluto ai pellegrini di lingua italiana, e in particolare i fedeli delle diocesi di Bologna, Bergamo, Casale Monferrato e quelli di Cagliari, accompagnati dall’arcivescovo Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei.
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