lunedì 15 gennaio 2024
La guerra al centro della riflessione del Patriarca di Gerusalemme dei Latini in apertura dell'anno accademico della Cattolica. «La via per la pace passa per l'ecumenismo della sofferenza»
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undefined - PAOLO GALOSI

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In poco più di mezz’ora prova a dare uno sguardo diverso, prova a tracciare alcune possibili vie per superare l’empasse nella quale ci troviamo in Terra Santa, dove d al 7 ottobre oltre alla guerra è avvenuto anche «uno spartiacque nel dialogo interreligioso, che non potrà essere più come prima, almeno tra cristiani, musulmani ed ebrei». Nella questione tra israeliani e palestinesi insomma non potrà essere più «un dialogo solo tra appartenenti alla cultura occidentale, come è stato fino ad oggi, ma dovrà tenere in conto le varie sensibilità, i vari approcci culturali non solo europei, ma innanzitutto locali. È molto più difficile, ma da lì si dovrà ripartire».

Il Patriarca di Gerusalemme dei Latini, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, usa spesso le parole giustizia, verità, riconciliazione e perdono per descrivere i bisogni di una terra martoriata da mesi, concetti che «non potranno essere – come forse è stato fino ad oggi – solo auspici, ma dovranno trovare contesti realmente vissuti, con una interpretazione condivisa, e tornare ad essere espressioni credibili e desiderate, senza le quali sarà difficile pensare ad un futuro diverso».

Futuro che prova ad immaginare nel corso dell’inaugurazione del nuovo anno accademico dell'Università Cattolica a Roma. Futuro e possibili scenari di pace che al mattino sono stati anche argomenti del colloquio che il patriarca di Gerusalemme ha avuto proprio con papa Francesco. Il cardinale Pizzaballa ne parla proprio prima di salire sul palco dell’università, quando il porporato spiega che con il Papa «ci siamo aggiornati sulla situazione umanitaria della comunità cristiana a Gaza, ma più in generale della Terra Santa e le possibili prospettive, per vedere se c'è la possibilità di aprire canali di dialogo, per vedere almeno come fermare questa deriva che è sempre più preoccupante». Inoltre, ribadisce che «c'è un desiderio da parte di tutti per cambiare direzione agli eventi. Ma bisogna lavorare per questo in maniera non troppo pubblica, perché altrimenti le cose non funzionano. So che ci sono dialoghi in corso per cercare di vedere come fermare questa situazione», tentando di trovare canali di comunicazione tra le parti.

Ma è poi nella sua relazione che scende più nel dettaglio di ciò che si può fare per il Medio Oriente. Che ognuno può fare. Innanzitutto c’è la necessità, secondo lui, di recuperare una dimensione profetica, che «significa essere capaci di una visione, di orientare, di dare uno sguardo». La missione che ci aspetta, insomma, è quella di essere artigiani di pace, per usare un’espressione di Papa Francesco. «Ciascuno per la sua parte – dice così il porporato - è chiamato ad essere profeta, cioè a dare coraggio, a costruire prospettive di vita. Laddove tutto sembra rinchiudersi in odio e dolore, è chiamato ad aprire orizzonti, e non lasciare credere che non vi sia più spazio ad una speranza, che non ci possa essere una luce». Per guardare infatti ad un futuro di speranza e pace occorre, comunque, partire dal fatto che «le ferite non vanno eliminate, ma trasfigurate, e ciò non vale solo a livello di fede, ma anche a livello umano». Da entrambe le parti è perciò necessaria «una volontà precisa, un’azione positiva di incontro con il male, ma senza rimanere fermi al male subito o commesso, senza che questo resti l’unica e l’ultima parola pronunciata».

Un cambiamento di prospettiva che dovrà cominciare anche dal linguaggio, sia delle istituzioni che dei media, dove andrà recuperata l’umanità. «Un linguaggio violento, aggressivo, carico di odio e di disprezzo, di rifiuto e di esclusione, insomma - continua il Patriarca di Gerusalemme - non è un elemento accessorio a questa guerra, ma è anzi uno degli strumenti principali di questa e troppe altre guerre». La necessità di un linguaggio non esclusivo si affianca sempre più alla consapevolezza del ruolo dei credenti in questa guerra, del loro ruolo centrale anche nell’orientare il dialogo, orientando i nostri passi. Come? Affinché la profezia della pace diventi realtà, infatti, «è indispensabile educarci al rispetto, all’incontro, al dialogo, al perdono. Tutti, ebrei, musulmani e cristiani, devono essere innanzitutto testimoni credibili di speranza, perché convinti della bontà di Dio su tutti gli uomini. Senza speranza non si vive – il cardinale Pizzaballa lo dice con voce ferma –. Oggi c’è più paura che speranza. La paura si affronta con le armi della fede e della preghiera. Questo è il momento della speranza. Credo che l’antidoto alla violenza e alla disperazione, da qualunque parte venga, sia creare speranza, iniettare speranza, generare speranza, educare alla speranza e alla pace». Diventare dunque «profeti di pace».

Ad ascoltare il cardinale, in prima fila nell’Auditorium dell’ateneo romano ci sono molte autorità. A cominciare dal vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, il ministro della Salute Orazio Schillaci, quello della Cultura Gennaro Sangiuliano, il presidente emerito della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti, il cardinale decano Giovanni Battista Re, il vescovo già presidente dell’Apsa Nunzio Galantino e il vescovo ausiliare di Roma monsignor Benoni Ambarus, il vescovo assistente ecclesiastico generale della Cattolica Claudio Giuliodori. Come anche ci sono tutti i vertici dell’ateneo e tantissimi studenti. Davanti a loro il cardinale ad un certo punto usa la frase «ecumenismo della sofferenza» per spiegare ciò che come Chiesa e come uomini possiamo fare per la Terra Santa. «È solo partire dalla comunione nella sofferenza che possiamo capire l’altro e andare incontro a lui». Se infatti, «abbiamo poca possibilità di sedere ai tavoli internazionali – sottolinea Pizzaballa – abbiamo però il dovere di edificare comunità riconciliate e ospitali, aperte e disponibili all’incontro, autentici spazi di fraternità condivisa e di dialogo sincero». Questo non significa però tacere di fronte alle ingiustizie, ma nel prendere posizione non si può, la sua conclusione, «diventare parte di uno scontro, ma prendere posizione deve sempre tradursi in parole e azioni a favore di quanti soffrono e non in condanne contro qualcuno». In sostanza, «siamo chiamati tutti a varcare la barriera, ogni oltre speranza. Solo così la nostra vita non sarà spesa invano».


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